copertina Intervista Daddi

Isabella Daddi, Per Franca Mancinelli, in L’urgenza del corpo: pratiche di resistenza e di esposizione attraverso il testo poetico. Una destinazione femminile, Tesi di laurea in Prosa e generi narrativi del Novecento, Corso di Laurea in Italianistica, Culture Letterarie Europee e Scienze Linguistiche, Alma Mater Studiorum -Università di Bologna, Relatore prof. Stefano Colangelo, a.a. 2020/2021.

Prendendo in riferimento l’opera del filosofo Jean-Luc Nancy, ho deciso di condurre la mia analisi su una delle tendenze più marcate della poesia contemporanea degli ultimi decenni, quella della corporeità. La definizione di corpo, per come la intende il filosofo, risiede nel suo essere aperto, esposto, fortemente soggetto alla piaga, alla ferita che lo caratterizza, e all’interno della quale non c’è da ricercare alcun tipo di senso, nessun significato trascendentale, laddove la sua forza consisterebbe proprio nel riconoscersi corpo in quanto tale, in questo uguale a tutti gli altri corpi. Partendo dalla tua prima raccolta, Mala kruna, e proseguendo poi con Pasta madre e con Libretto di transito, si nota una tendenza, parafrasandoti, a donarti al crollo, a farti resto, scarto, briciole, lasciando appesa a un ramo la pelle, cercando un abito in cui si indossa la «taglia esatta della pena». In un’epoca fortemente post-beckettiana, che ha fatto del resto e della piaga una vera e propria cifra stilistica, fino a giungere ad una crudele notomizzazione dell’organismo, dove collochi la tua esperienza poetica? Come percepisci il corpo, testuale e fisico, all’interno del tuo lavoro, e in che modo questa percezione è cambiata nel corso degli anni?

Sono in profonda sintonia con il pensiero di Florenskij secondo cui «esiste solo una lingua – ed un unico tipo di parole, quelle articolate dal corpo intero […]. Ogni parola viene pronunciata da tutti i nostri organi, dall’intero corpo». In questo momento scrivo percependo il mio corpo traumatizzato. Questa frattura che porto si trasmette alla mia mente che è, a sua volta attraversata da tagli e cesure, zone da cui non è possibile formulare parole. Se mi guardo indietro riconosco il ritorno di un crollo, il lavoro infinito per uscire dalle macerie e ritrovare uno spazio in cui abitare. Ogni libro di poesia è stato il dono di una ricomposizione: parti scheggiate e taglienti, frammenti di scontri, di cadute, hanno trovato nella scrittura quella materia primordiale, portatrice di vita, che è in sostanza l’amore – che non ha soggetto né oggetto, semplicemente è e fa sì che ogni cosa sia. Nell’esperienza della lingua e del silenzio che la genera, c’è questa possibilità di trovare accoglienza a tutto ciò che siamo: ciò che ha voce e lascia segni, ciò che si è depositato e ciò che ancora non è percepibile. Libretto di transito, come i due precedenti libri, risponde alla necessità di una metamorfosi e compie un movimento circolare. Va da sonno a sonno, come Pasta madre, contiene un viaggio sospeso, come Mala kruna. Tutti gli occhi che ho aperto, il nuovo libro che uscirà a settembre per Marcos y Marcos, per quanto racchiuda un tragitto più vasto, si conclude in quella che appare come «una possibile forma di vita»: un’esistenza, un inizio. Forse, fino a qui, la scrittura si è generata da un conflitto, vissuto in modo più o meno pacificato, tra una necessità di prendere corpo e radicarsi, e quella di liberarsi da ogni corpo e radice.

Fortemente legato alla dimensione del corpo è un altro filo tematico che sembra percorrere moltissime delle esperienze poetiche contemporanee e che viene ampiamente sviluppato anche nei tuoi scritti: è l’interrogativo sull’abitare, sull’abitabilità/inabitabilità del mondo. Spesso ricorrono, all’intero delle tue poesie, immagini di case, geografiche ed umane, vuote come sacchetti, desolate, rase (emblematica e potentissima in questo senso è la quarta sezione di Mala kruna, Un rudere la casa), dove anche «le frasi non compiute restano ruderi», nel petto «c’è una piccola faglia» che si allarga, e la casa ha inghiottito la porta lasciando le rondini libere di andare e venire. Come interpreti una questione cruciale quale quella dell’abitabilità/inabitabilità degli spazi, della casa, del corpo?

Siamo in un tempo in cui le forme del vivere sia nello spazio sia nei legami affettivi, attraversano profonde trasformazioni che ci portano ancora a riconoscere più i ruderi del passato piuttosto che quanto resiste o sta sorgendo nel presente. Per me è «un rudere la casa», come scrivevo in Mala kruna, ma la percezione negli ultimi anni è cambiata: più che uno spazio di rovina e di distruzione, il rudere mi appare ora come uno spazio concesso per abitare e consistere. Soltanto tra queste pareti precarie e soggette al crollo è possibile che entri la natura, che gli animali abbiano tana, che si raccolga la pioggia, e che abbiano luogo altri imprevedibili eventi.

Abitare significa possedere qualcosa con continuità fino a riconoscerci in essa –viene infatti dal frequentativo di habere. Non posso riconoscermi in nulla che sia chiuso e delimitato in se stesso, per questo, come ha notato Antonella Anedda, scrivere è per me spesso «una riflessione sulla disappartenenza». Una disappartenenza che posso provare a volte anche nei confronti del mio corpo. Disabitare se stessi e la realtà, può aprire un vuoto generato dalla mancanza di presenza e di cura, un terreno arido dove prosperano demoni e ombre, oppure un vuoto che viene da un sacrificio consapevole di sé, per accogliere l’altro. Il discrimine tra queste due possibilità è dato dalla capacità di prendere pienamente casa in se stessi prima di aprirsi all’altro, perché l’altro possa essere onorato come ospite e non tollerato come inquilino delle nostre lacune o, peggio, subìto come invasore. Il poeta Jerker Sagfors introducendo la sua traduzione in svedese di Libretto di transito, ha illuminato perfettamente ciò che è in gioco in questa condizione, parlando di una successione di rituali di passaggio dove «an unclear, split identity […] conflicts with the remaining fragments of its origin» e riconoscendo Libretto di transito come «a book about escape, independence and settlement». «To catch oneself before anything else does», conclude, centrando con esattezza questa tensione in cui la ricerca di sé è insieme un tentativo di salvarsi dalle proprie più tenaci ombre.

Una delle critiche più vivaci di questi ultimi anni, esposta ad esempio all’interno del testo Sulla poesia moderna di Guido Mazzoni, è quella che si è rivolta contro la centralità del corpo intesa come risultato di una tendenza al monadismo dell’Io, riferendosi con questo a una scrittura che ruota attorno al proprio ombelico, le cui strutture sono svuotate di significato, dove «l’io regredisce a schemi di pensiero narcisistici, nega l’alterità del mondo o la riduce ad argomento di un breve monologo in prima persona». Ti allinei a questa riflessione o pensi che l’Altro, il Volto dell’altro, per riprendere un seminale concetto del pensiero filosofico di Lévinas, il quale ci dice che «il volto è l’altro che mi chiede di non lasciarlo morire da solo», sia invece fortemente compreso nella dimensione corporea, e che ci appelli, in maniera violenta, sottoponendoci una richiesta di soccorso? Credi che in qualche modo questa datità, la fisicità di cui i testi poetici sono impregnati, la corporizzazione del testo che ne deriva, sia invece intrinsecamente connessa a una dimensione etica e politica? E se sì, per quali ragioni?

La parola svincolata dal corpo è una pericolosa astrazione capace di distruggere noi stessi e la realtà. Credo, con Florenskij, che la parola si formi da un’energia psico-fisica che viene dal corpo ed entra in contatto con il deposito di significato che la comunità umana ha tenuto vivo attraverso le generazioni. Soltanto a partire da un profondo radicamento in noi stessi, e quindi nel corpo, possiamo attingere a quel processo di creazione che porta a «poter dire, di quanto è stato creato: “non è mio”», e a «trovare ciò che è eterno all’essere». In questo senso la poesia è un atto politico, si origina da una tensione che va oltre l’io, in un rapporto autentico con la comunità. La parola senza corpo è vittima dell’ego, delle sue gabbie e proiezioni. Chi scrive poesia è chiamato a dare corpo alle parole, a offrirsi interamente alla realtà che, attraverso le parole, accade.

Amelia Rosselli, durante un’intervista per una tesi di laurea del 1991, afferma che «la donna con la sua fisiologicità corporale […] ha qualcosa non di diverso da scrivere, ma di più fisiologico da distinguere anche sul piano contenutistico». Ti trovi d’accordo con le sue parole? Come il dato fisiologico si declina e sviluppa all’interno delle tue raccolte, e come influisce sulla forma, sul corpus scritto, sulla parola?

Non credo sia possibile distinguere nella scrittura ciò che proviene da un dato fisiologico, sia perché riguarda qualcosa di estremamente complesso, che comprende vari processi che interagiscono con altri sistemi e dimensioni, sia perché probabilmente costituisce il sostrato di non dicibile da cui si genera quell’energia che dà forma alle parole. Può essere forse più semplice riconoscerlo, come suggerisce Amelia Rosselli, sul piano dei contenuti. Seguendo per esempio un tema come quello della maternità. Il mio secondo libro, Pasta madre, si compone attorno a questo tema, legato al nome di Maria, la madre per eccellenza, una parte dell’identità profonda che appartiene a ogni donna, a prescindere dalla forma in cui genera e dà alla luce (biologica oppure simbolica, attraverso un atto creativo). Maria è anche il nome della madre di mia madre, e il mio secondo nome “cancellato”, che resta soltanto nei documenti (da qui i versi di Maria come mi chiamo). L’immagine della gestazione ha dettato i versi di quanto tempo contieni e disegnando sul ventre un cerchio aperto dove tornano le parole del Magnificat, «grandi cose ha fatto in me». Mentre nella cancrena aperta con i gesti contiene l’immagine di una maternità simbolica, raggiunta attraverso l’esperienza di una profonda ferita che porta a vedere attraverso il dolore, e a divenire madre di se stessi, prendendosi cura della propria fragilità. Anche in Mala kruna torna il tema della maternità, nell’autoritratto della «ragazza arco».

Trovi che la natura della scrittura poetica sia toccante? Per toccante intendo la sua capacità di esporsi, «la poésie ne s’impose plus, elle s’expose», afferma Celan, volendo con questo sottolineare come, citando Cortellessa, «la facoltà toccante della poesia non sia solo un principio edonistico bensì comunicativo, cioè ordinato alla messa in comune del senso. […] Il senso infatti, quando sia stato proiettato con intensività, lascia in noi una traccia incancellabile». Sempre Cortellessa, ripartendo dai precetti poetici leopardiani contenuti all’interno dello Zibaldone, dove si ribadiva che la parola, il rapporto tra questa e lo stile è il corpo de’ pensieri, sottolinea questo: «come ci insegna Leopardi, non è in gioco solo l’effetto quanto, appunto, il suo senso. Leggere una poesia, dunque, equivale a entrarvi in contatto: fare esperienza del suo senso in quanto inseparabile dalla sua verbalità. La lettura di una poesia è una sua verifica tattile, un’attivazione sensuale. È una vera e propria fisica del senso». In che termini di tatto, di con-tatto, collocheresti la tua esperienza poetica, e quanto ritieni che una poesia, fondamentalmente, debba agire?

Se una poesia non agisce, non è poesia. Lo dice il suo stesso etimo, poiein. L’esperienza della poesia ci trasforma proprio perché accade ora, attraverso le parole, portandoci in una dimensione altra dove, prima di comprendere, è necessario affidarsi a qualcosa di più grande. Mi piace pensare, con Brunella Antomarini, alla poesia come erede di rituali arcaici in cui avveniva la risoluzione di drammi e conflitti; anche ora, di fronte alla pagina, siamo chiamati a tornare in quello «stato di coinvolgimento globale, guidato dal corpo, seguito dalla mente», in cui si apre uno spazio di presenza che permette una trasformazione. In questo senso, come scrive Cortellessa, la poesia «lascia in noi una traccia incancellabile», che non può essere elusa o ignorata proprio perché riguarda la parte più profonda di noi che, attraverso l’esperienza poetica, torna ad essere.

Soffermandoci sull’aspetto formale delle tue raccolte principali, Mala kruna, Pasta madre e Libretto di transito, si nota come tu coltivi, a partire da quest’ultima, riprendendo una celebre definizione di Berardinelli, una tendenza di poesia che va verso la prosa. La lirica moderna, o postmoderna, non si limita più infatti solo alla lirica, ma sperimenta una varietà di generi che vanno dalla narrativa al teatro, dalla saggistica alla satira, riappropriandosi di tutta una serie di istituzioni che il Novecento aveva dismesso. Come intendi e coniughi queste diverse tensioni all’interno dei tuoi testi, in un lavoro che è partito da una forma lirica per poi passare, in parte, all’adozione di elementi più decisamente prosastici? Quali forme, ad oggi, tendi a prediligere e, se è possibile chiederlo, per quali ragioni? Come negli anni è cambiata la tua percezione di lirica, di poesia?

La scrittura in prosa è stata spesso il terreno in cui ho riconosciuto i semi della poesia. Brevi appunti lasciati nel mio taccuino, riletti a distanza di tempo potevano lasciare emergere immagini-guida, portatrici di un significato che cresce quanto più gli riserviamo attenzione. I primi versi sono nati seguendo una metrica interiore; un istintivo computo di sillabe mi dava la sensazione di una forma compiuta, dentro cui poteva trovare pace la mia incertezza. Così è stato nel passaggio dai tanti quaderni e foglietti sparsi al primo libro, Mala kruna. Riflettendo sul lavoro fatto sono nate le prose di poetica Un verso è una vasca e altri appunti sulla poesia. Con il libro seguente, la scrittura si è addensata come Pasta madre, affidata alle mani dell’altro per compiersi. Libretto di transito è nato come il tentativo di uscire da quella lingua e di guadagnarmi uno spazio più ampio, dove poter accompagnare il fluire delle immagini. Liberata dal campo di forza che gravita tra l’inizio-fine del verso, non riuscivo a orientarmi, sentivo il rischio di una forma intermedia, che abdica sia alla poesia che al racconto e sembra reggersi su un equilibrio sottile, da ritrovare ogni volta. Poi mi sono accorta che, in fondo, quei testi erano poesie che non andavano a capo. Nascevano dallo stesso rapporto con il silenzio che genera la poesia. Il mio nuovo libro, Tutti gli occhi che ho aperto, unisce sia poesia in versi che in prosa e, nella parte finale, anche una forma di prosa vicina al diario poetico di viaggio; la penultima sequenza, Diario di passo, raccoglie infatti alcuni estratti di Taccuino croato, uscito l’anno scorso in Come tradurre la neve (AnimaMundi). Forse questa particolare condizione esistenziale e storica che sento di “transito”, di “passo”, mi ha portata verso una forma aperta che tenta di accogliere sia le illuminazioni che il fluire frammentato delle immagini.

Vorrei chiederti infine delle mani. Queste sono forse la parte anatomica che più fortemente agisce all’interno delle tue liriche. Ma sbaglierei a definirle mere parti anatomiche; queste si configurano infatti strumento, raccolgono e contengono, sono «lingua preistorica», si fanno cucchiaio per contenere il viso tracciandone i contorni. Parlando delle mani, non può che venire in mente lo straordinario lavoro poetico e politico che su queste ha condotto un’artista come Ketty la Rocca: nel famoso video-opera presentato alla Biennale di Venezia del 1972, intitolato Appendice per una supplica, queste fungono infatti da vere e proprie appendici comunicative, stagliandosi su un fondo scuro che mette in evidenza i semplici gesti che eseguono: mani aperte o chiuse nel pugno, che si accostano o si stringono l’un l’altra. Mani di donna, mani di uomo. In che modo interpreteresti le mani come appendice comunicativa del tuo lavoro poetico? Attribuisci loro un valore performativo in senso comunitario, che scongiuri il rischio di una banalità e retoricità della parola, per ricondurre ancora una volta il parlare, lo scrivere, al tocco?

È vero che le mani e i gesti sono ricorrenti nella mia scrittura, forse soprattutto in Pasta madre dove, fin dal titolo, è evocata indirettamente la centralità dei gesti che possono prendersi cura di questa materia e portare a compimento le possibilità di vita che ha in sé. Parliamo con le mani e con il corpo, prima che attraverso la lingua. Nella nostra infanzia e in quella dell’umanità, la parola era gesto: un insieme di movimenti e di suoni che tentano di avvicinarsi il più possibile a qualcosa, portandone l’essenza nel corpo, mimandola. Mi piace pensare alla lingua della poesia come a una «lingua preistorica»: lingua delle origini e insieme lingua che affiora ogni volta che il contatto con la realtà è così forte da mettere in crisi il sistema del linguaggio, da rendere insufficienti le sue forme. E mi piace pensarla nel cerchio di una comunità che opera insieme, erede dei millenni in cui si è vissuto di semine e di raccolti, una comunità che vive in noi anche ora, frammentata in nuclei familiari o in individui che soli, nel proprio appartamento, si preparano la cena. Nei gesti essenziali senza cui la nostra vita non si sosterrebbe, scorre l’energia che ha perpetuato la nostra specie, e che forma la parola poetica, necessaria alla vita come il cibo, il sonno.

Giugno 2020

Foto di Stefania Zampiga

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