Nell’inverno del 2018, un gruppo scelto di artisti e poeti ha attraversato la Bosnia Erzegovina e la Croazia per raccogliere “immagini e parole sui percorsi dei rifugiati”. Tra diario di viaggio e reportage poetico, i lunghi versi di Calandrone e Anil e i frammenti in prosa di Mancinelli, restituiscono l’immagine di una terra gelata, tagliata da confini spinati, dove le tracce dei migranti transitati di recente, si uniscono a quelle di una guerra che ha lasciato case abbandonate e un presente che sembra chiedere ai giovani soltanto di partire. Le ferite della memoria e quelle aperte dall’assenza, abitano le case infinite di Calandrone, con le voci dei superstiti, di chi resta chiedendosi “dove sia l’origine, l’errore di tutto questo” (Anil). La Slavonia che Mancinelli attraversa nel suo taccuino croato assomiglia a un deserto di ghiaccio, nei cui confini si svolge il crudele “gioco” dei respingimenti illegali. La tragica storia di Madina lo conclude, con la sua verità resa invisibile. Come tradurre in parole questa esperienza, Come tradurre la neve? Le voci di questi tre poeti affrontano temperie ostili e inospitali, mantenendosi fedeli alla nudità dell’inverno e insieme a quel “nucleo di calore sepolto” che conserva, nella parola, l’origine della nostra umanità.
Non è un caso che sia caduta la neve, coprendo questa terra, cancellando le tracce di tutti quelli che hanno vegliato e bivaccato al confine, portati da treni e ore di cammino, con uno zaino, una borsa, sorvegliati dalla polizia e dalle forze speciali schierate come un’altra rete di filo spinato. La neve è caduta su tutto questo, ha ristabilito la pace che ora calpestiamo: questo silenzio, questa solitudine degli alberi carichi dei frutti del gelo. Non ero contento all’inizio. Come potrò restituire tutto questo? I contorni protetti, custoditi dal bianco. Linee e contrasti unificati. Dovrei aspettare che riappaiano le cose, lentamente, oltre l’acqua sporca. Ma poi ho capito che la neve è caduta per una ragione.
Prima era solo una valle divisa da un corso d’acqua, dove i bambini si tuffano, appendendosi ai rami degli alberi, e sulle rive gli adulti li aspettano con il barbecue. C’erano feste da una sponda all’altra, d’estate, nei piccoli paesi, e molti amori. Poi sono affiorate le spine. Chilometri di spirali avvolte su se stesse. Si è srotolato un nastro bianco e rosso, come un segnale di pericolo. Ci siamo recintati – mi racconta un abitante di Kraj Donji. – Gli animali non lo capiscono. Per questo ogni tanto troviamo un cervo dissanguato. È come un sacrificio che si ripete. Ieri il mio cane è rimasto ferito sul confine. Sono quasi tre anni che viviamo così. C’è qualcosa di sordo in tutto questo.
Il confine di Kraj Donji sembra vuoto. Una piccola stazione di guardia deserta. Nell’aria sotto zero una bandiera a strisce rossa, bianca, blu. Ad alcuni passi di distanza, oltre il manto di neve intatto, un’altra piccola stazione e una bandiera con gli stessi colori, in un ordine diverso: bianco, blu, rosso. Al centro questo spazio da cui si resta a guardare, sporti su un precipizio invisibile. A un tratto, dietro una parete di ghiaccio, domanderanno una carta che attesti chi sei. Ripeto quella stessa domanda al viso che appare da un ritaglio di foto incollato tra lettere e sequenze di numeri. È un’operazione a cui manca una cifra per essere compiuta. Aspettano questo. Riempi la tua casella di morte.
Non puoi perdere o dimenticare in questo viaggio. La carta che devi conservare nel gioco, e continuare a mostrare, ogni volta, per ribadire che sei della squadra di chi può andare avanti, di chi ha tutto in regola. Che sia con te sempre. Stretta nel tuo portafogli. Cucita a doppio filo alla pelle.
Se a questa dogana solitaria, che taglia in due un piccolo paese nella neve, sovrapponi un fotogramma di un’altra sequenza di tempo (autunno 2015), vedi centinaia di migranti attendere in piedi, sotto la pioggia, o dormendo a terra, appoggiati l’uno sull’altro. Come si è composta questa immagine? Com’è svanita?
Tiziano Fratus
Come tradurre la neve che abbiamo dentro
«Il manifesto –ExtraTerrestre», 18 luglio 2019
Esce per le edizioni AnimaMundi di Otranto Come tradurre la neve. Tre sentieri nei Balcani, ensemble di testi dei poeti Alessandro Anil, Maria Grazia Calandrone e Franca Mancinelli. Sono opere maturate nel corso di residenze creative itineranti ed invernali – ecco perché la neve – in Bosnia Erzegovina e Croazia. I poeti ribadiscono la coincidenza fra corpo e paesaggio, la grande intuizione del nostro tempo, manifesta in cantori quali Franco Arminio che ne ha fatto manifesto addolorato e incantato, ma già attraversata dai nord-americani.
La geografia intima di Maria Grazia Calandrone si intitola le case infinite, si tratta di appunti in versi che toccano similitudini politiche, memorie collettive, impressioni di un’età agricola italiana che chi attraversa i Balcani sembra ritrovare nel tempo più prossimo. «L’aria ha memoria», scrive la Calandrone, e ci si rituffa in brandelli di un film di guerra – la paura, la fuga, la morte, la solitudine dei corpi spenti. L’occhio registra il viaggio, si lascia trasformare mentre la realtà circola dietro un finestrino. Fattorie, alberi, fiumi, campi di pannocchie. Poi, come giganti emersi dalle profondità della storia, emergono gli umani, i testimoni, i reduci, i sopravvissuti alla tragedia: «Uomini come lacrime cadute / dalle ciglia del nulla». Non manca la critica sociale, il dito puntato a questa Europa, al capitalismo che «sgretola la solidarietà sociale». Ma sarà il capitalismo o saranno gli uomini a consentirlo? Nella città di Tuzla ritornano i volti, le storie, la solitudine che ti porta ad «aderire alle cose» e a non custodire più sogni.
I componimenti di Alessandro Anil portano il titolo il seme della dimenticanza. «Il mio corpo è nel ventre, lo sguardo altrove», così ha inizio il suono composto della sua voce, una confessione scandita, ritmata, in un pastiche che ha qualcosa di teatrale. Si incontra il paesaggio balcanico e poi si presentano i giganti, come la signora del villaggio di Caprazlije: la sua lotta, la sua incredulità di fronte alle case che si svuotavano e i giovani che partivano e non tornavano, e il desiderio di una vita normale, la terra che non consente la dimenticanza.
Il taccuino croato di Franca Mancinelli è in prosa ed è un documentario di viaggio: «Le mie pupille», precisa, sono «formiche ubbidienti alle scosse di un temporale lontano, si incamminano». Le prime pagine schizzano gli estremi di un confine naturale, il corso di un fiume, un tempo gioco dei bambini, poi regno del filo spinato; uno spazio assurdo, con «qualcosa di sordo», dove sembra si aspetti tutti di riempire la propria «casella di morte». Transitando per confini e posti di blocco il viaggiatore si trasforma in un prigioniero, ne imita gli occhi sgranati, ne imita il respiro affannoso, ne imita il rimpicciolimento: mani che si fanno più strette, idee che compattano, parole che tacciono. Ogni cosa pare un presagio, come un’edicola di legno: «Una crepa discende per tutto il costato di un Cristo dal busto diviso. Rose e fiori di plastica ai piedi. I polsi inchiodati a una croce che non si vede». Che cosa non hanno dimenticato i boschi dell’ex Yugoslavia, che cosa hanno ascoltato e poi sedimentato? Possono davvero le parole addomesticate e artigianate traghettare quel che gli uomini hanno fatto gli uni agli altri? Oppure l’unica speranza è quella di attendere una nuova abbondante nevicata che seppellisca ogni resto, ogni traccia, e faccia ricominciare daccapo?
Non è un caso che sia caduta la neve, coprendo questa terra, cancellando le tracce di tutti quelli che hanno vegliato e bivaccato al confine, portati da treni e ore di cammino, con uno zaino, una borsa, sorvegliati dalla polizia e dalle forze speciali schierate come un’altra rete di filo spinato. La neve è caduta su tutto questo, ha ristabilito la pace che ora calpestiamo: questo silenzio, questa solitudine degli alberi carichi dei frutti del gelo. Non ero contento all’inizio. Come potrò restituire tutto questo? I contorni protetti, custoditi dal bianco. Linee e contrasti unificati. Dovrei aspettare che riappaiano le cose, lentamente, oltre l’acqua sporca. Ma poi ho capito che la neve è caduta per una ragione.
Prima era solo una valle divisa da un corso d’acqua, dove i bambini si tuffano, appendendosi ai rami degli alberi, e sulle rive gli adulti li aspettano con il barbecue. C’erano feste da una sponda all’altra, d’estate, nei piccoli paesi, e molti amori. Poi sono affiorate le spine. Chilometri di spirali avvolte su se stesse. Si è srotolato un nastro bianco e rosso, come un segnale di pericolo. Ci siamo recintati – mi racconta un abitante di Kraj Donji. – Gli animali non lo capiscono. Per questo ogni tanto troviamo un cervo dissanguato. È come un sacrificio che si ripete. Ieri il mio cane è rimasto ferito sul confine. Sono quasi tre anni che viviamo così. C’è qualcosa di sordo in tutto questo.
Il confine di Kraj Donji sembra vuoto. Una piccola stazione di guardia deserta. Nell’aria sotto zero una bandiera a strisce rossa, bianca, blu. Ad alcuni passi di distanza, oltre il manto di neve intatto, un’altra piccola stazione e una bandiera con gli stessi colori, in un ordine diverso: bianco, blu, rosso. Al centro questo spazio da cui si resta a guardare, sporti su un precipizio invisibile. A un tratto, dietro una parete di ghiaccio, domanderanno una carta che attesti chi sei. Ripeto quella stessa domanda al viso che appare da un ritaglio di foto incollato tra lettere e sequenze di numeri. È un’operazione a cui manca una cifra per essere compiuta. Aspettano questo. Riempi la tua casella di morte.
Non puoi perdere o dimenticare in questo viaggio. La carta che devi conservare nel gioco, e continuare a mostrare, ogni volta, per ribadire che sei della squadra di chi può andare avanti, di chi ha tutto in regola. Che sia con te sempre. Stretta nel tuo portafogli. Cucita a doppio filo alla pelle.
Se a questa dogana solitaria, che taglia in due un piccolo paese nella neve, sovrapponi un fotogramma di un’altra sequenza di tempo (autunno 2015), vedi centinaia di migranti attendere in piedi, sotto la pioggia, o dormendo a terra, appoggiati l’uno sull’altro. Come si è composta questa immagine? Com’è svanita?
Tiziano Fratus
Come tradurre la neve che abbiamo dentro
«Il manifesto –ExtraTerrestre», 18 luglio 2019
Esce per le edizioni AnimaMundi di Otranto Come tradurre la neve. Tre sentieri nei Balcani, ensemble di testi dei poeti Alessandro Anil, Maria Grazia Calandrone e Franca Mancinelli. Sono opere maturate nel corso di residenze creative itineranti ed invernali – ecco perché la neve – in Bosnia Erzegovina e Croazia. I poeti ribadiscono la coincidenza fra corpo e paesaggio, la grande intuizione del nostro tempo, manifesta in cantori quali Franco Arminio che ne ha fatto manifesto addolorato e incantato, ma già attraversata dai nord-americani.
La geografia intima di Maria Grazia Calandrone si intitola le case infinite, si tratta di appunti in versi che toccano similitudini politiche, memorie collettive, impressioni di un’età agricola italiana che chi attraversa i Balcani sembra ritrovare nel tempo più prossimo. «L’aria ha memoria», scrive la Calandrone, e ci si rituffa in brandelli di un film di guerra – la paura, la fuga, la morte, la solitudine dei corpi spenti. L’occhio registra il viaggio, si lascia trasformare mentre la realtà circola dietro un finestrino. Fattorie, alberi, fiumi, campi di pannocchie. Poi, come giganti emersi dalle profondità della storia, emergono gli umani, i testimoni, i reduci, i sopravvissuti alla tragedia: «Uomini come lacrime cadute / dalle ciglia del nulla». Non manca la critica sociale, il dito puntato a questa Europa, al capitalismo che «sgretola la solidarietà sociale». Ma sarà il capitalismo o saranno gli uomini a consentirlo? Nella città di Tuzla ritornano i volti, le storie, la solitudine che ti porta ad «aderire alle cose» e a non custodire più sogni.
I componimenti di Alessandro Anil portano il titolo il seme della dimenticanza. «Il mio corpo è nel ventre, lo sguardo altrove», così ha inizio il suono composto della sua voce, una confessione scandita, ritmata, in un pastiche che ha qualcosa di teatrale. Si incontra il paesaggio balcanico e poi si presentano i giganti, come la signora del villaggio di Caprazlije: la sua lotta, la sua incredulità di fronte alle case che si svuotavano e i giovani che partivano e non tornavano, e il desiderio di una vita normale, la terra che non consente la dimenticanza.
Il taccuino croato di Franca Mancinelli è in prosa ed è un documentario di viaggio: «Le mie pupille», precisa, sono «formiche ubbidienti alle scosse di un temporale lontano, si incamminano». Le prime pagine schizzano gli estremi di un confine naturale, il corso di un fiume, un tempo gioco dei bambini, poi regno del filo spinato; uno spazio assurdo, con «qualcosa di sordo», dove sembra si aspetti tutti di riempire la propria «casella di morte». Transitando per confini e posti di blocco il viaggiatore si trasforma in un prigioniero, ne imita gli occhi sgranati, ne imita il respiro affannoso, ne imita il rimpicciolimento: mani che si fanno più strette, idee che compattano, parole che tacciono. Ogni cosa pare un presagio, come un’edicola di legno: «Una crepa discende per tutto il costato di un Cristo dal busto diviso. Rose e fiori di plastica ai piedi. I polsi inchiodati a una croce che non si vede». Che cosa non hanno dimenticato i boschi dell’ex Yugoslavia, che cosa hanno ascoltato e poi sedimentato? Possono davvero le parole addomesticate e artigianate traghettare quel che gli uomini hanno fatto gli uni agli altri? Oppure l’unica speranza è quella di attendere una nuova abbondante nevicata che seppellisca ogni resto, ogni traccia, e faccia ricominciare daccapo?