C’è un filo elettrico che percorre i versi di Franca Mancinelli, uno stato d’allarme, qualcosa che ci costringe all’attenzione. Sono stati scritti alla finestra, in una zona di frontiera e di dogana. E sono stati scritti dopo un difficile cammino tra le parole, con pagine lasciate bianche e silenziose. Di tale cammino portano il peso, la ferita e la tensione, ma anche il sapere. […] Tutto il libro è un sottrarre e un levigare, uno sforzo di purificarsi, di giungere a una nudità che è conoscenza.
cucchiaio nel sonno, il corpo
raccoglie la notte. Si alzano sciami
sepolti nel petto, stendono
ali. Quanti animali migrano in noi
passandoci il cuore, sostando
nella piega dell’anca, tra i rami
delle costole, quanti
vorrebbero non essere noi,
non restare impigliati tra i nostri
contorni di umani.
un colpo di fucile
e torni a respirare. Muso a terra,
senza sangue sparso.
Cose guardate con la coda
di un occhio che frana
mentre l’altro è già sommerso, e tutto
si allontana. Gli alberi
si piegano su un fianco
perdono la voce in ogni foglia
che impara dagli uccelli
e per pochi istanti vola.
padre e madre caduti
frutti che non potevano
marcirmi attaccati
mentre nudo imparavo
a reggere il cielo
come un uccello sul dorso, lasciando
campi e case affondare.
L’azzurro torna
a coprire la terra. Trattengo
nel becco il ricordo,
il seme che sono stati.
nemmeno una linea nominabile
leggo acqua nell’acqua
con il testo del cielo a fronte
qualcosa in noi respira
soltanto nel trasloco:
gioia per ogni terra cancellata.
darò semplici baci di sutura
verserò saliva a ogni giuntura
sarò sbucciata e dolce ai denti.
Ogni mattino ti coglierò un pugno
di fiori dal selciato.
Per te avrò aghi sempreverdi
e sboccerò ogni inverno per bruciarmi.
Il mondo di fuori è divenuto un interno domestico, la luce si è schermata o accecata in penombra, mentre la certezza di esserci è di continuo misurata sulla consistenza vegetale/minerale/animale di presenze rarefatte: sono incerti residui, crisalidi, minime spoglie, gli indizi di un principio di metamorfosi o di una mutazione già in atto: «con le tue carezze ai piedi/ secche foglie, aspetto nuda/ le ossa oltre la carne/ gemme nell’inverno/ e armatura». Può sembrare un punto di stallo ma si tratta di una attesa prolungata nel freddo, a pugni chiusi, dove ormai si profila, per improvvise intermittenze, l’evenienza di un “tu” che non è un “tu” novecentesco, non un nominativo, ma piuttosto un “te” accusativo”, vale a dire lo spazio proiettivo del senso: il luogo in cui, liberandosi, si arrende per un attimo a se stessa la poesia.
È raro leggere in un libro di oggi tanto rispetto per il silenzio, per la vastità, per ciò che la parola umana non dice e non può dire. […] È una poesia rituale, questa di Franca Mancinelli, chiede che si legga ogni brano con l’attenzione della preghiera o della meditazione o della dismisura; al termine dell’immersione nella materia ci si scopre non più sostanza, ma semplice segno di un passaggio verso un oltre che ci supera. […] «quello che sono è una finestra». Questo è il destino che qui si assegna alla poesia; nessun soggetto sulla scena, nessun pianto, nessun lamento di Giobbe: il dolore singolare qui entra e passa con il peso delle generazioni che si avvicendano, delle immense migrazioni di animali.
In questa nuova raccolta Mancinelli affida al filo della propria scrittura il disegno di percorsi circolari, che alternano rapidissime cadute a prudenti e meditate riemersioni dal mondo familiare e straniante della natura: un entrare e uscire attraverso gli strati metamorfici (dal minerale al vegetale, dall’animale all’umano) dell’esperienza del vivere, accompagnati da un linguaggio insieme misurato e onirico, concreto e fortemente lirico. […] È attraverso la sospensione – il perdersi e il disseminarsi sotto il peso della gravità dell’essere – da un lato, e il contatto con la terra e le sue profondità dall’altro, che la poesia di Mancinelli diventa il luogo miracoloso, corporeo, di ibridità antichissime tra l’umano e l’animale, che si scambiano continuamente i contorni, i confini, le porte.
Pasta madre è diviso in sezioni. Ognuna di esse ha una sua coerenza interna e svolge un suo micro-discorso. Ognuna di esse sembra concentrarsi su un aspetto della realtà per poi aprirlo, spalancarlo davanti a un immaginario coltello dell’intelligenza, disseccarlo. Le sezioni sono separate tra di loro da pagine bianche, ed è subito evidente che nelle intenzioni dell’autrice il bianco ha lo stesso peso del nero, come insegna una certa tradizione novecentesca (Blanchot, per esempio). […] Il lettore di questo libro è sommamente invitato al silenzio e al rispetto. É evidente che Mancinelli, del vuoto che ha fatto attorno a sé, non ha minimamente paura. E men che meno del vuoto che ha provveduto a scavare attorno alle parole.
Per leggere Pasta madre di Franca Mancinelli bisogna tornare ad una dimensione dell’antico e del biologico che ha il suo primo sedimento nei lieviti di una immaginazione potente […]. […] s’intravede l’immagine di una Sibilla cosciente, che non disperde i suoi messaggi con le foglie, ma che da quelle stesse foglie sa contare le verità delle sue abitudini visionarie e dei suoi discernimenti. […] la voce della Mancinelli, […], è una voce “totale”, presente da millenni nel nostro orecchio e alla coscienza dei significati, una voce “maieutica” capace di estrapolare dalle radici dell’umano i reperti e i germi della sua significazione.
Tutto in questa raccolta è metamorfosi incessante, inesausto mutamento. […] Per la Mancinelli scrivere è accogliere, lasciare entrare il mondo attraverso la finestra spalancata del sé, lasciarsene invadere e pervadere […]. In questo morire a se stessi per accogliere il mondo e ricrearlo, lo sguardo della poetessa si fa tagliente; la pasta del linguaggio si piega malleabile alle esigenze del verso, si frange negli enjambement e ricompone nell’andamento circolare di ogni singolo testo e dei motivi ricorrenti che del corpus complessivo fanno un unico nucleo, magmatico, costantemente in movimento. […] l’io si dissolve e si riforma alternativamente, in una sorta di processo alchemico teso alla ricostruzione di sé.
Viene descritto un esserci al mondo per mezzo di scissioni, rotture e ferite […] in corpo unico tra umano e natura, tra palpiti vitali e freddo metallo. In questi passaggi di stato vediamo cancelli tramutarsi in toraci di bambini, mani che si curvano in ponti, formiche al posto delle ciglia… […] è forte anche la presenza del dolore, il dolore fisico, come punto di partenza e di arrivo per trovare un nuovo io, il vero io, in un continuo gioco di sottrazione e rinascita. […] quel dolore che lacera ha generato una nuova identità, una vera identità.
cucchiaio nel sonno, il corpo
raccoglie la notte. Si alzano sciami
sepolti nel petto, stendono
ali. Quanti animali migrano in noi
passandoci il cuore, sostando
nella piega dell’anca, tra i rami
delle costole, quanti
vorrebbero non essere noi,
non restare impigliati tra i nostri
contorni di umani.
un colpo di fucile
e torni a respirare. Muso a terra,
senza sangue sparso.
Cose guardate con la coda
di un occhio che frana
mentre l’altro è già sommerso, e tutto
si allontana. Gli alberi
si piegano su un fianco
perdono la voce in ogni foglia
che impara dagli uccelli
e per pochi istanti vola.
padre e madre caduti
frutti che non potevano
marcirmi attaccati
mentre nudo imparavo
a reggere il cielo
come un uccello sul dorso, lasciando
campi e case affondare.
L’azzurro torna
a coprire la terra. Trattengo
nel becco il ricordo,
il seme che sono stati.
nemmeno una linea nominabile
leggo acqua nell’acqua
con il testo del cielo a fronte
qualcosa in noi respira
soltanto nel trasloco:
gioia per ogni terra cancellata.
darò semplici baci di sutura
verserò saliva a ogni giuntura
sarò sbucciata e dolce ai denti.
Ogni mattino ti coglierò un pugno
di fiori dal selciato.
Per te avrò aghi sempreverdi
e sboccerò ogni inverno per bruciarmi.
Il mondo di fuori è divenuto un interno domestico, la luce si è schermata o accecata in penombra, mentre la certezza di esserci è di continuo misurata sulla consistenza vegetale/minerale/animale di presenze rarefatte: sono incerti residui, crisalidi, minime spoglie, gli indizi di un principio di metamorfosi o di una mutazione già in atto: «con le tue carezze ai piedi/ secche foglie, aspetto nuda/ le ossa oltre la carne/ gemme nell’inverno/ e armatura». Può sembrare un punto di stallo ma si tratta di una attesa prolungata nel freddo, a pugni chiusi, dove ormai si profila, per improvvise intermittenze, l’evenienza di un “tu” che non è un “tu” novecentesco, non un nominativo, ma piuttosto un “te” accusativo”, vale a dire lo spazio proiettivo del senso: il luogo in cui, liberandosi, si arrende per un attimo a se stessa la poesia.
È raro leggere in un libro di oggi tanto rispetto per il silenzio, per la vastità, per ciò che la parola umana non dice e non può dire. […] È una poesia rituale, questa di Franca Mancinelli, chiede che si legga ogni brano con l’attenzione della preghiera o della meditazione o della dismisura; al termine dell’immersione nella materia ci si scopre non più sostanza, ma semplice segno di un passaggio verso un oltre che ci supera. […] «quello che sono è una finestra». Questo è il destino che qui si assegna alla poesia; nessun soggetto sulla scena, nessun pianto, nessun lamento di Giobbe: il dolore singolare qui entra e passa con il peso delle generazioni che si avvicendano, delle immense migrazioni di animali.
In questa nuova raccolta Mancinelli affida al filo della propria scrittura il disegno di percorsi circolari, che alternano rapidissime cadute a prudenti e meditate riemersioni dal mondo familiare e straniante della natura: un entrare e uscire attraverso gli strati metamorfici (dal minerale al vegetale, dall’animale all’umano) dell’esperienza del vivere, accompagnati da un linguaggio insieme misurato e onirico, concreto e fortemente lirico. […] È attraverso la sospensione – il perdersi e il disseminarsi sotto il peso della gravità dell’essere – da un lato, e il contatto con la terra e le sue profondità dall’altro, che la poesia di Mancinelli diventa il luogo miracoloso, corporeo, di ibridità antichissime tra l’umano e l’animale, che si scambiano continuamente i contorni, i confini, le porte.
Pasta madre è diviso in sezioni. Ognuna di esse ha una sua coerenza interna e svolge un suo micro-discorso. Ognuna di esse sembra concentrarsi su un aspetto della realtà per poi aprirlo, spalancarlo davanti a un immaginario coltello dell’intelligenza, disseccarlo. Le sezioni sono separate tra di loro da pagine bianche, ed è subito evidente che nelle intenzioni dell’autrice il bianco ha lo stesso peso del nero, come insegna una certa tradizione novecentesca (Blanchot, per esempio). […] Il lettore di questo libro è sommamente invitato al silenzio e al rispetto. É evidente che Mancinelli, del vuoto che ha fatto attorno a sé, non ha minimamente paura. E men che meno del vuoto che ha provveduto a scavare attorno alle parole.
Per leggere Pasta madre di Franca Mancinelli bisogna tornare ad una dimensione dell’antico e del biologico che ha il suo primo sedimento nei lieviti di una immaginazione potente […]. […] s’intravede l’immagine di una Sibilla cosciente, che non disperde i suoi messaggi con le foglie, ma che da quelle stesse foglie sa contare le verità delle sue abitudini visionarie e dei suoi discernimenti. […] la voce della Mancinelli, […], è una voce “totale”, presente da millenni nel nostro orecchio e alla coscienza dei significati, una voce “maieutica” capace di estrapolare dalle radici dell’umano i reperti e i germi della sua significazione.
Tutto in questa raccolta è metamorfosi incessante, inesausto mutamento. […] Per la Mancinelli scrivere è accogliere, lasciare entrare il mondo attraverso la finestra spalancata del sé, lasciarsene invadere e pervadere […]. In questo morire a se stessi per accogliere il mondo e ricrearlo, lo sguardo della poetessa si fa tagliente; la pasta del linguaggio si piega malleabile alle esigenze del verso, si frange negli enjambement e ricompone nell’andamento circolare di ogni singolo testo e dei motivi ricorrenti che del corpus complessivo fanno un unico nucleo, magmatico, costantemente in movimento. […] l’io si dissolve e si riforma alternativamente, in una sorta di processo alchemico teso alla ricostruzione di sé.
Viene descritto un esserci al mondo per mezzo di scissioni, rotture e ferite […] in corpo unico tra umano e natura, tra palpiti vitali e freddo metallo. In questi passaggi di stato vediamo cancelli tramutarsi in toraci di bambini, mani che si curvano in ponti, formiche al posto delle ciglia… […] è forte anche la presenza del dolore, il dolore fisico, come punto di partenza e di arrivo per trovare un nuovo io, il vero io, in un continuo gioco di sottrazione e rinascita. […] quel dolore che lacera ha generato una nuova identità, una vera identità.