copertina Intervista Libretto

Libretto di transito di Franca Mancinelli. Questa intervista a cura di Giovanni Fierro è apparsa su «Fare Voci» nel giugno 2018.

La prima cosa che colpisce in questo tuo nuovo libro è la forma, il ritmo narrativo delle sequenze e delle frasi…

È vero, non sono andata a capo. Questi testi vivono in un respiro diverso da quello che genera i versi. L’incontro con il bianco è rimandato, si apre dopo l’ultimo punto fermo. Ma la maggior parte dello spazio di questo Libretto è bianco. I testi sono suoi ospiti. Ciottoli su cui posare un piede, brevi isole in un fiume di silenzio.

C’è un senso di sospensione in Libretto di transito, come se ogni immagine e vicenda fosse inscritta in qualcosa di non definitivo.

Questo senso di sospensione può provenire dal fatto che tutto il Libretto è sporto verso una possibile metamorfosi che sembra darsi soltanto alla fine, in un sonno che è insieme lotta a occhi chiusi e abbandono a un passaggio dalla forma umana a quella vegetale. Le foglie che alla fine iniziano a parlare, potrebbero essere cresciute dalle gemme che stanno spuntando dal corpo, oppure appartenere a un albero vicino, poco importa. Ciò che sta avvenendo è una sorta di ritorno a un’unità primigenia, a una stazione dell’essere dove la parola è il movimento e il respiro della materia. Una frase sta iniziando proprio alla fine di questo Libretto. È forse quella impronunciabile, che contiene e assorbe tutta l’esistenza di un uomo. Quella che affiora tra labbra chiuse, prima di partire per il grande viaggio.

A differenza di Pasta madre, qui le pagine bianche sembrano fare da collegamento tra le sequenze del libro. Quasi a trovare il tempo necessario per costruire una vicinanza. Mi sbaglio?

Credo in realtà che il principio costruttivo di Pasta madre e di Libretto sia quasi lo stesso. In quest’ultimo è certo più forte il disegno narrativo che lega ogni fotogramma e sequenza. Si tratta comunque di un filo sussultorio, come potrebbe essere nella mente di qualcuno che, viaggiando in treno, guarda il paesaggio fuori e dentro di sé, tra sonno e veglia, schegge di memoria e improvvise prese di coscienza, ombre che ritornano e frantumano.

Per me ogni libro è una casa, e per questo cerco di costruirlo nel modo più saldo possibile. Mentre Mala kruna, il mio primo libro, ha seguito la traccia di una storia di formazione, dall’infanzia ai suoi ruderi, da Pasta madre il sentiero si è come cancellato o aperto: non ci sono più sezioni vere e proprie ma soltanto sequenze scandite da pagine bianche. Sono lo spazio della vita che ha generato i versi e in cui i versi ritornano. Un tempo per entrare di nuovo nell’ascolto, con la speranza che l’altro, transitando in queste pagine, possa sentirsi accolto. Da Pasta madre fino a questo Libretto, ho continuato a sentire la necessità di pagine bianche, come un ritmo naturale del respiro. Come finestre di una casa che altrimenti sarebbe una prigione o un sepolcro.

Mi sembra che il titolo Libretto di transito sia un invito per il lettore a cogliere le piccole cose, quelle veramente importanti che possono dare significato a ogni gesto quotidiano. In questo libro c’è visione e sogno, ma anche tanto desiderio di vivere la vita in tutti i suoi accadimenti, di raccogliere ogni sua minima espressione…

L’esperienza del viaggio è quella in cui più si riconosce la traccia della nostra esistenza. Non dobbiamo dimenticare che siamo di passaggio, per quanto tutto attorno ci porti a credere e desiderare forme stabili e fisse. Questo Libretto, pensato come viatico da portare con sé, è scritto da quella particolare visuale di chi ha fatto i conti con la necessità di una partenza, e dunque con tutte le perdite e gli abbandoni che questa comporta. C’è una legge di povertà, di riduzione all’essenziale, proprio come quando si prepara uno zaino o una valigia. Ogni oggetto trascelto, è custodito per una ragione che ha a che fare con vari ordini di sopravvivenza. Tutto è nell’orizzonte del transito, del grande viaggio compiuto a occhi chiusi, addormentandosi, come in un tempo antico, accanto alle poche cose che hanno fatto la nostra vita e che saranno necessarie per ciò che ci aspetta. Insieme a queste ci sono, altrettanto presenti, quelle perdute che riaffiorano «premendo l’angolo duro della loro assenza», portando dolore e insieme il dono di una visione finalmente nitida, libera di ogni scoria.

In questo libro c’è un tessuto narrativo nel quale brillano alcuni passaggi, quasi come dei veri e propri haiku, che illuminano un percorso di scoperta. Era un’idea di partenza, oppure lo scrivere ha “costruito” questa espressione poetica?

Mi piace molto questa idea di haiku in prosa. La necessità della sintesi e della condensazione è un po’ connaturata al mio respiro, probabilmente per questo istintivo riconoscere la vita nella sua forma transitoria, di soglia. Mentre con la scrittura in versi, negli anni, ho maturato una sorta di familiarità che mi permette di distinguere nel tempo le tracce a cui affidarmi e quelle da lasciare sbiadire, con le parole che continuano oltre l’a capo mi sentivo smarrita, senza bussole, come avessi davvero perso il verso, la direzione. Sembrava che potessi concedermi di camminare, di abbandonarmi ai passi, come avessi conquistato una maggiore libertà. In realtà quei brevi tragitti che compivo ritrovando presto la mia tana nel bianco, erano come al confine del deserto, di una possibilità di essere riassorbiti dal silenzio. Li ho riconosciuti e salvati quando, ritrovandoli a distanza di mesi, mi sono accorta del filo che li teneva uniti, come tessere di un racconto sommerso. Cambiando l’ordine di lettura le tessere illuminavano altri significati. Ho così lavorato affidandomi alla sequenza intera di narrazione, cercando il suo ritmo, che è anche composto di presenze che affiorano e si scorporano, visioni limpide e riflessi.

Ogni pagina è un paesaggio. Questo scrivere è molto pittorico. Cosa lo fa essere così?

La scrittura è traduzione di una visione. Scrivo per conoscere, per vedere nel modo più nitido che mi è concesso. Questo comporta farsi invisibili, abbandonando per un po’ il corpo e l’identità che l’esistenza ci ha assegnato, come un guscio dal quale uscire e ritornare.

La scrittura stessa è un paesaggio nel quale possiamo dimenticarci e perderci. Questo paesaggio è tessuto dalla presenza dell’altro. Senza l’altro non si darebbe nessun paesaggio, nessuno spazio di vita. Nessuna esistenza, nessuna storia. È lui a portare «dettagli e densità», a dare corpo e fondamenta. Eppure in questo stesso movimento di tessitura della realtà c’è anche quello che può privare della vita, proprio come una tela di ragno. Questo libro attraversa il tema della relazione-inganno e dei “buchi neri” che apre, tra necessità di parola e sua negazione, necessità di vedere e insieme di “nascondere per proseguire”, come sembrano fare gli “adulti”.

Ci sono paesaggi visti come dal finestrino di un treno, in cui posso «chiudere gli occhi e dormire» inseguendo voci e ascoltando il racconto che fanno le cose mentre compaiono. Ci sono contesti urbani, interni domestici, un orto, un giardino, ma sono tutti in qualche modo paesaggi psichici, visti dall’interno, da uno stato di dormiveglia. «Guardo soltanto i fiumi», soltanto la loro direzione certa di senso, mi chiama, “mi sveglia”.

da Libretto di transito (Amos Edizioni, 2018)

Viaggio senza sapere cosa mi porta a te. So che stai andando oltre i confini del foglio, dei campi coltivati. È il tuo modo di venirmi incontro: come un’acqua in cammino, diramando. Guardando dal finestrino, ti ho letto nel viso finché c’era luce.

*

Le cose che hai scordato di portare con te. Lasciate negli scompartimenti dei treni, scivolate dai sedili degli autobus. A un tratto ti raggiungono premendo l’angolo duro della loro assenza, come attraversando una zona più limpida dello sguardo.

*

In questo paesaggio posso chiudere gli occhi e dormire, senza il rimorso di avere interrotto il narrare del treno: come si vive, come sono disposti gli alberi e le case, che cosa stanno facendo gli uomini.

Il racconto continua silenzioso, mentre penso e inseguo altre voci. È un tragitto compiuto tante volte, che basta poco a riconoscerlo. Guardo soltanto i fiumi. Il rumore delle rotaie sul ponte mi sveglia.

*

Con il tuo bene continui a tessere questo spazio, a portare dettagli e densità. Il tuo bene è un filo che si rigenera di continuo formando una ragnatela. Io sono avvolta lì, un po’ viva e un po’ morta. Ma se svolgessi il filo e tornassi a vedere, troveresti una croce sormontata da un cerchio. Così sottile e lieve, tracciata sulla polvere. Basterebbe un tuo soffio per liberarmi.

*

Ma tu porti argilla. Aggiungi altra argilla dell’inizio del mondo. Vai verso i luoghi rotti e vuoti. Sei chiamato dagli spazi caldi, un manovale sudato che sorride del suo lavoro che crolla.

Sorridi, ricomincia il tempo. Una tunica tiepida ti avvolge fino alle tempie, ti riporta in cucina, nella tinozza sul tavolo. Ti bagna i capelli, tra le mani grandi di tua madre.

*

Mi porti in salvo come sollevando la parte più fragile di te. Resisti nel tumulto. Ed eccoti al varco, attraversato da scariche di luce chiara. Non hai più viso, sei fuori da ogni contorno. Soltanto luce chiara. Vorrei raccoglierti con le mani, contenerti mentre nasci, ma ti sprigioni: sei la corrente prima che non si può toccare.

Foto di Deborah Pagliero

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