Non la conoscevo di persona quando sono andato ad ascoltarla alla presentazione del suo ultimo libro di poesia. Mi parlava da sempre, come da sempre ci parlano i poeti senza che li abbiamo mai letti o conosciuti. Franca Mancinelli, mia amica, mia guida nel transito di un libro, di un sogno, di un desiderio che scoprirò solo domani, è una di loro.
Libretto di transito (Amos Edizioni 2018) è la tua ultima pubblicazione scritta tra il sogno e la memoria che, rincorrendosi, cadenzano un ritmo costante reso tramite coaguli onirici di cicatrici poetiche. Dissolvenze tattili e astratta, calibrata precisione si coniugano delineando una tela posta a metà strada tra il dettaglio realistico e l’allusione magica. Quale è la «taglia esatta della pena» del “vestito” che hai scelto per incamminarti in questo testo che si pone come una iniziazione?
Riconoscersi, appartenere a un corpo e a un luogo, prendere casa in se stessi e nel mondo, mettere i piedi a terra: sono questioni centrali in Libretto di transito. Questo tema dell’abito compare fin dalla prima sequenza del libro. Habito, frequentativo di habeo, è ciò che continuiamo ad avere, ciò in cui la nostra presenza si ritrova accolta, custodita in una identità. Questa tensione al radicamento convive con «una riflessione sulla disappartenza» (Antonella Anedda), con il tema del viaggio che attraversa tutto il libro. Il sottile e sussultorio filo che unisce questo Libretto è infatti quello di un viaggio in treno, tra il sonno e la veglia, tra schegge di memoria e lampi di coscienza. Ma il viaggio a cui ogni partenza rinvia, è quello principale, oltre questa vita: il transitus. Per questo «Non è solo preparare una valigia»: gli oggetti che abbiamo trascelto e tutti i gesti compiuti fino a “confezionarci e vestirci bene”, hanno un significato rituale, ci riconducono in quel sonno originario in cui nascita e morte sono congiunte. Neonato e defunto dormono entrambi «nel centro dello sguardo» di chi li ha accompagnati su questa terra. «Entrare nella taglia esatta della pena» è ciò che ci è richiesto dall’esistenza, per essere riconosciuti dentro confini umani e individuali. È ciò che ogni partenza, ogni uscita dal sonno chiede. È vero, come è stato notato da alcuni critici, che il movimento di questo libro è circolare. Infatti nel sonno ci riporta l’ultimo testo del libro: un sonno di metamorfosi in cui, come in un processo salvifico e di liberazione, le parole provengono dalla natura.
Mala kruna e Pasta madre due raccolte di poesie rispettivamente del 2007 e del 2013 sono state riunite in A un’ora di sonno da qui (Italic Pequod, 2018), bellissimo titolo per un libro di poesia. In copertina c’è una mano aperta con le sue cinque dita, un particolare proveniente dalle grotte di Lascaux. Un organo prensile che sembra afferrare qualcosa o che ha lasciato qualcuno, esattamente come le poesie che compongono entrambe le raccolte, tracce di una spiritualità nuda, come quella persistente chiazza azzurra vicino cui sei nata che è il mare della tua Fano. A tratti sembra quasi che tu scriva sotto la dettatura del paesaggio familiare e naturale della tua terra d’origine così presente nei tuoi testi. Quanto sei legata ad esso?
Il paesaggio scrive il nostro corpo. La scrittura è un’impronta del corpo, proprio come quelle mani nelle grotte di Lascaux. Provo un brivido ogni volta che le vedo riprodotte. C’è qualcosa di miracoloso nel loro farsi presenti, come da un limite verso cui una vita si è protesa per attraversare il buio e raggiungerci. Per farlo si è spogliata di tutto ciò che non poteva oltrepassare questa soglia, ha rinunciato a narrazioni, dettagli e decorazioni, perché qualcosa di più grande avvenisse. Ogni gesto artistico è in questo stesso atto rituale. La pagina bianca è la parete-soglia in cui possiamo imprimere ciò di cui siamo tramiti.
I segni che il mare Adriatico e le colline marchigiane hanno lasciato in me, li sento in questo periodo in cui vivo a Bologna ancora più forti. Ho riscoperto il silenzio che ci è donato dal mare, appena increspato dalle sue brezze, dal suo respiro. E anche quell’armonia originaria che ha questa terra collinare, come il fondale di un mare preistorico coltivato a viti e ulivi, abitato da case solitarie e piccoli paesi. Mi hanno sempre richiamato gli alberi sui crinali, la loro sagoma nitida nel crepuscolo, come il messaggio di un’altra forma di vita. Le linee che il mare traccia sui fondali sabbiosi, e che appaiono con la bassa marea, con il loro corollario di conchiglie. E potrei continuare ancora a lungo, richiamando alla mente le immagini che hanno plasmato il mio sguardo e che continuano a nutrirlo «dentro un orizzonte di colline». È questo il titolo di alcune prose sul paesaggio marchigiano che ho scritto alcuni anni fa per un’antologia e che mi piacerebbe raccogliere in un libro, insieme ad altre che hanno questo respiro che va oltre le micro sequenze di Libretto di transito.
Raramente mi è capitato di leggere poesie così “fuori tempo”, ben radicate in uno sguardo pulito che lacera e sutura la quotidianità con la musicalità dei versi, dote innata che distilli anche in forma di prosa. Ho sempre considerato scrivere le poesie usando la prosa come una delle sfide più delicate che un poeta o una poetessa possa compiere. In Libretto di transito o Un verso è una vasca e altri appunti sulla poesia contenuto in A un’ora di sonno da qui ne sono uno splendido esempio. Leggo un brano di un tuo appunto: «Il lavoro del cameriere è fatto di sguardo. Il suo compito è fare in modo che nessuno chieda di lui. Invisibile compagno, mastica nel pensiero quello che i clienti hanno in bocca». È il lavoro, perché di lavoro si tratta, del poeta la cui attività è sottoposta a una muta disciplina quasi militare. Cosa ne pensi?
Sì, è proprio così. Queste prose le ho scritte subito dopo l’uscita di Mala kruna, nell’estate del 2007. Sentivo l’esigenza di riflettere sul lavoro che mi ha portata dai tanti taccuini ai fogli stampati più volte con correzioni e varianti, fino al mio primo libro. L’incertezza a tratti ossessiva che mi ha accompagnato era proporzionale al mio avvertire ogni verso come qualcosa che si imprimeva sul mio corpo, e che non si sarebbe più cancellato. Sentivo il libro che andavo costruendo come una parte di me, e dunque dovevo poterlo riconoscere pienamente, in ogni sua parte.
Vivere di sguardo è un grande privilegio che la vita concede solo per alcuni momenti. In questo senso quello del cameriere, come quello del poeta, è un lavoro privilegiato, perché è fondato sullo sguardo. La disciplina che accomuna questi due lavori è quella che porta il proprio io a farsi da parte, in una sorta di assenza che è insieme una presenza potenziata, perché tesa alla massima intensità di ascolto e di attenzione.

Ora sei in India dove resterai per un periodo non breve: cosa ti ha spinto ad intraprendere questo viaggio? Cosa ti aspetti da quest’ultimo?
Sono a Calcutta come “Chair Poet in Residence”, per una residenza creativa. È il primo anno che viene organizzata, insieme a un festival internazionale di poesia. Sono il secondo poeta ospite, dopo l’estone Margus Lattik che mi ha preceduta tra dicembre e gennaio. Sono qui da quasi venti giorni ormai, ma questa misura poco corrisponde al tempo, che qui brucia nell’aria, come un bastoncino di incenso nelle edicole lungo le strade. Basta mettere un piede fuori dalla soglia di casa per essere investiti da una corrente fortissima: è la vita in tutta la sua pienezza e densità, prima di essere ingabbiata. È come se qui convergessero più dimensioni, che in Occidente sono state chiuse; è come se fossero ancora percepibili porte che da noi sono state murate e occultate. Da lì fuoriesce caotica, convulsa e splendida, la vita. Questa civiltà con cui sono appena venuta in contatto, mi sembra riconoscere e dare corpo a cose che da noi restano impalpabili o vengono ricacciate indietro. Per questo le loro divinità hanno più mani, più visi e musi, sono presenze metamorfiche, che accolgono la natura umana e animale, la forza del maschile e del femminile. Mentre la nostra cultura tende a confermare l’identità individuale, salda entro i propri confini, qui si resta aperti alle forme di vita da cui proveniamo e a quelle che ci aspettano.
In questo periodo stavo riflettendo sul potenziale di generazione che c’è nella distruzione. L’immagine di un «gap» a cui rinvia l’epigrafe di Emily Dickinson in Libretto di transito, e che torna poi come «fenditura», «falda», «faglia», rinvia proprio a questo. Ed ecco questa chiamata da Calcutta, la città di Kali, la dea devastatrice e terribile. È la mia prima volta in India e mi trovo a vivere proprio nella sua città, in un appartamento nel quartiere di Kalighat, poco più di un chilometro dal tempio di Kali. Sono qui, credo, per imparare a fare affiorare questa forza aggressiva, governandola e dirigendola a distruggere il male, ossia ciò che si avvicina per inghiottirmi, come un buco nero.
Leggendo le tue poesie ti ho immaginato come una donna-albero che affonda le proprie radici in una luna dal sapore di zucca:
lui mi ha potato tanto
lui mi ha tolto la morte:
a pena avresti
riconosciuto il nome
mio o di un altro.
Chiedeva: «avrà smesso di piovere?»
Io avevo ancora gli anni
per saperlo, per entrare
in casa e uscire
ferendomi o al riparo, mentre lui
seguiva l’accadere con un dito
sapeva dove andavano le vene.
Quali “foglie” custodisci nelle tue più segrete alchimie?
La tua visione di poeta è sorprendente, compone un ritratto in cui posso specchiarmi come in una superficie d’acqua increspata, riconoscendo frammenti che mi appartengono, tra i riflessi del cielo e quelli delle profondità. Quelle foglie di cui parli, sono germogli segreti a me stessa. Se le conoscessi, sarebbero già staccate dai miei rami.
Una breve sequenza di testi che ho scritto in questi anni si intitola Alberi maestri. Ho sempre guardato a queste creature come guide, come riferimenti saldi nel mio cammino. Non smetterò mai di imparare da loro, di tentare di tradurre il loro messaggio. La possibilità di essere a mia volta una “donna-albero” è qualcosa che mi fa stormire di gioia. In fondo è forse proprio questa la metamorfosi che si avvia nell’ultimo testo di Libretto di transito, lottando perché si liberino finalmente, oltre la scorza, le gemme.
Sei stanca. Stai facendo spuntare le gemme. Le scorze si frangono, non resistono più. Con gli occhi chiusi continui a lottare. La terra è una roccia, si sbriciola in ghiaia sottile. È una parete e una porta. Continua a dormire. Le foglie si parlano fraterne. Dal cuore alla cima della chioma, stanno iniziando una frase per te.
(Da Libretto di transito, Amos Edizioni, 2018)
«I martedì», anno 42, n. 4. https://www.rivistaimartedi.it/
Immagine di copertina di Sebastiano Guerrera, Quercia (Rovere), 2015, grafite su carta, cm 25×25