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Domenico Segna, “Il cimitero di farfalle. Le prose di Franca Mancinelli pubblicate negli Stati Uniti”

Con Franca quando ci incontriamo la memoria cattura le nostre parole, il tempo si dilata, si frammenta per poi di nuovo ricomporsi in una nube di istanti. Qualcuno di essi si deposita: polvere di infanzia, incanti, lacerazioni, maturità stilistica di una scrittura dove quotidianità e poesia si confondono per librarsi in un spazio spoglio, colmo di quella naturalità che è difficile a farsi.  

The Butterfly Cemetery: il tuo ultimo libro pubblicato in edizione bilingue negli Stati Uniti presso The Bitter Oleander Press. Raccoglie prose, scritte tra il 2008 e il 2021, che battono le ali come autentiche poesie: un volo perfettamente riuscito. Perché un titolo così teso?

Il cimitero di farfalle è il titolo di un racconto sull’infanzia che apre il libro. La parola “cimitero” può evocare subito qualcosa di luttuoso, ma l’immagine delle farfalle porta, almeno nella mia percezione, a una zona di fiaba e di mistero dove la morte non ha un significato tragico o drammatico, e il cimitero assomiglia piuttosto a un giardino, a un luogo dove si è depositata una bellezza che, in un tempo precedente, attraversava l’aria. Forse questo è dovuto anche al fatto che la farfalla, presso diverse culture, è stata associata alla metamorfosi, a ciò che non muore, ma si trasforma. Questo titolo fa riferimento a un gioco della mia infanzia legato alla “polvere magica” che sta sulle ali delle farfalle. Toccando le loro ali, finivo per “addomesticarle” e, senza che me ne accorgessi, ucciderle; così le seppellivo, dentro un cerchio di sassi bianchi, formando nei giorni un piccolo cimitero. Quando scrivendo sono tornata a questo ricordo, l’immagine si è riverberata portandomi a ciò che chiede una distanza per vivere, a ciò che non si può toccare se non distruggendolo. Qualcosa di simile accade con gli arcobaleni. Ma anche noi umani siamo creature evanescenti e fragili, e molto di noi deve morire e seppellirsi, ogni volta che viene toccato da mani inconsapevoli. Ho infine scelto di dare a questo libro di prose il titolo di questo racconto perché in quell’immagine ho riconosciuto anche l’esperienza della scrittura. Scrivendo cerchiamo di catturare la bellezza, ma non possiamo fare a meno di ucciderla: ogni volta che diamo una forma e dei confini, la vita con la sua bellezza perde l’energia che la faceva volare, perde l’aperto, entra in una morte. Per questo una poesia, una pagina scritta, è il nostro cimitero di farfalle.

Pagine autobiografiche si alternano a pagine che a poco a poco scoprono parole. C’è una sofferta lacerazione e, al contempo, una rigorosa presentazione di ciò che costituisce la tua memoria: scrivi perché hai ceduto la parola. Eppure, nella caduta di cui scrivi hai trovato un filo d’erba. Quale?

È il totalmente inaspettato, l’energia vitale che affiora, in un luogo che sembrava inospitale. E allora quel germoglio, quel filo d’erba che ha trovato la via per esserci, trasforma tutto ciò che lo circonda, diventa il centro, l’inconoscibile che vive tra intercapedini e fenditure. La caduta di cui scrivo in Cedere la parola è un’esperienza di perdita di se stessi, una forma di trasparenza vissuta con il proprio corpo, che ho sperimentato nell’infanzia e poi ancora soprattutto nell’adolescenza, in quegli anni in cui è facile ritrovarsi ai margini del cerchio dei propri coetanei. Questa forma di scomparsa, di presenza assente al proprio nome e alla propria identità anagrafica, continuo a viverla nella scrittura, dove posso dimenticare i miei contorni umani ed essere accolta da quell’amore originario che passa in noi attraverso la lingua, come attraverso un antico cordone. Posso viverla anche nella natura, sotto la chioma dei miei “alberi custodi” o sotto la superficie del mare. Viverla tra gli umani è invece un grosso rischio, fonte di pericolo e distruzione. Ne parlo in questo brano che ho raccolto nel libro con il titolo Poesia, lingua madre:

Con la poesia siamo ricondotti a ciò che siamo veramente, al nostro più autentico volto, che è quello buio, aperto, in cui può affiorare una foglia, un muso.

Ci sono stati del nostro essere in cui i nostri confini si fanno così labili che possono essere facilmente attraversati. Per alcuni momenti siamo ciò che vediamo e sentiamo. È una condizione di fragilità estrema, in cui siamo esposti a un rischio enorme. Con il tempo, attraverso la scrittura, mi è stata donata la possibilità di invertire la direzione e il senso di questo ampio potenziale autodistruttivo attorno a cui gravitavo: è così che mi sono ritrovata nel poiein, nella possibilità di creare, di cambiare qualcosa attraverso di me. Nel farlo attingo a questa forza che si sprigiona da quel cortocircuito tra morte e vita. È come una scossa elettrica che mi ricorda, in un istante, tutto ciò che ho dovuto sacrificare al buio. Mi ricorda l’altro lato dello specchio: i miei fratelli seppelliti, i dispersi e senza nome. Tutto ciò che ancora chiede voce e chiama.

Poesia, lingua madre è un abbagliante momento del tuo percorso poetico contenuto nel libro. Preferisco cederti la parola piuttosto che fare una domanda dal sapore di una teca che contiene una farfalla morta.

La parte finale di The Butterfly Cemetery è composta da testi in cui rifletto sull’esperienza della scrittura e sul significato della poesia. Sono prose scritte in diverse occasioni, che sono state raccolte grazie alla cura del mio traduttore inglese John Taylor, alla cui vicinanza fraterna questo libro deve l’esistenza. Anche se parliamo quotidianamente due lingue diverse, io e John abbiamo la stessa lingua madre, la poesia. Riconoscersi figli di una lingua (e della lingua della poesia in particolare) è una possibilità di conforto e di salvezza aperta a ognuno di noi. Si appartiene così a una famiglia estesa quanto il cosmo. L’amore che circola non ha condizioni e restrizioni, chiede semplicemente di essere percepito e trasmesso. Come figli di questa lingua, restiamo per tutta l’esistenza infanti, cercando il nome di ogni cosa, tentando di sillabarlo esattamente. Siamo messi al mondo ogni volta che una parola raggiunge la realtà, la fa esistere. Nei confronti delle nostre ferite, la poesia è una forma di riscatto, di riparazione: con la sua forza di trasformazione ci riporta in vita. Così in Luminescenze, una sequenza del mio recente libro di poesia:

con la forza del niente

del non avuto mai

niente da barattare,

i gesti ricompongono una lingua

si allaccia al mio corpo un’armatura.   

(da Tutti gli occhi che ho aperto, marcos y marcos 2020)

C’è una forza che viene dal disarmo, dalla più completa nudità, dalla consapevolezza del proprio essere fragili, del proprio essere niente. È la forza della poesia che, senza cedere ad alcun compromesso (di comprensione, di comunicazione), con le sue parole che sono insieme gesti, azioni creatrici, ci dona la sola armatura che possiamo portare nel mondo.

In Un libro di poesia, una struttura vivente riporti una frase scritta da Remo Pagnanelli: «La purezza è un vessillo luttuoso». Il testo così prosegue: «La purezza, come la perfezione, è una condanna a morte». Chi è il giudice?

«La purezza è un vessillo luttuoso» è un verso di Remo Pagnanelli, tratto da una poesia di Preparativi per la villeggiatura, il libro testamentario di questo poeta marchigiano partito in vacanza dall’esistenza a trentadue anni, nel 1987. Per AnimaMundi ho curato insieme a Rossana Abis la riedizione del suo Atelier d’inverno, uscito quest’anno con introduzione di Roberto Galaverni e una nota di Milo De Angelis. La purezza, come la perfezione, è uno dei vessilli che possiamo ritrovarci a portare, più o meno consapevoli, nell’esistenza. Questo verso di Pagnanelli ha risuonato in me probabilmente attraverso la riflessione che stavo facendo, in quelle stesse brevi prose, sull’errore e, in particolare, sul fatto che la condizione per non commettere errori è la morte. La purezza e la perfezione sono due vessilli molto pesanti da portare, limitano e condizionano ogni movimento, ma allo stesso tempo non sono facili da deporre. Eppure a un tratto può accadere di accorgersi di combattere con tutte le forze sotto un’insegna di morte. Gli ideali creati dalla nostra mente, come bandiere, sono destinati a cadere o inevitabilmente a sporcarsi, a tornare in contatto con la materia di cui tutto è composto. Il giudice interno che ha innalzato questi vessilli, e che li difende da ogni attacco, dovrà fare silenzio e mettersi da parte perché la vita possa accadere e dispiegarsi in tutto il suo vigore.

Nella medesima prosa-poesia c’è, dopo la figura del giudice, il ritratto di una tua amica che aveva imparato a lavorare a maglia in un suo periodo particolarmente critico: credo che ti abbia insegnato molto.

Da ogni amicizia e incontro autentico impariamo qualcosa che ci è necessario, forse in particolare da quelle persone che testimoniano una difficoltà superata, un guado trovato là dove si interrompeva il cammino. Attraverso questa amica ho rivissuto il significato di un gesto rituale che avevo osservato tante volte da bambina, in mia madre, che è capace di lavorare a maglia, e in mia nonna che aveva anche una macchina da cucire a pedale. Ho ricordato la forza generatrice di un piccolo movimento ripetitivo che porta la vita avanti, a dispetto di ogni ostacolo, di ogni apparente paralisi. Un gesto legato a quelle attività comunitarie, fatte dalle famiglie contadine sull’aia, come sgranare in silenzio, cantando, o raccontandosi ogni tanto qualcosa. Chi cuce, chi tesse o lavora a maglia, come nella scrittura non è mai solo perché la sua opera lo unisce a chi è venuto prima e a chi viene, e consente al filo di tendersi, all’opera di compiersi e destinarsi. Rivedo ora, grazie alla tua domanda, un altro gesto abituale che faceva mia nonna, seduta con le mani intrecciate sul grembiule scuro, girando i pollici di seguito da un lato e poi invertendo il verso, come una piccola ruota che continua a macinare i suoi semi. Accompagnava così lo scorrere della vita nei momenti di apparente vuoto e inoperosità. E rivedo anche un oggetto a cui sono molto legata e che rappresenta per me il suo lascito. È una piccola cassettiera in legno che conteneva rocchetti di filo di diversi colori, ordinati secondo le tonalità digradanti. Molti di quei rocchetti sono ancora intatti. Penso al carattere taciturno e schivo di mia nonna, alla sua bellezza simile a quella di una viola che appare solo a chi sa fare attenzione e avvicinarsi. Nel silenzio della mia scrittura è intrecciato il suo operoso silenzio. Nelle mie parole si svolgono i suoi rocchetti.

Maria, verso Cartoceto è una prosa raccolta in The Butterfly Cemetery, dedicata a lei:

Tra le sequenze di suoni che ripeteva a memoria c’erano le preghiere. Insieme a queste mi ha insegnato un gesto che assomigliava a quello di legarsi le scarpe: un incrocio che si formava, se eseguito esattamente. Con la punta delle dita si tocca il centro della fronte, il centro del petto, la spalla sinistra e poi la destra. Come un laccio che ti tiene unita, che ti riporta al centro del tuo cuore che è sempre il cuore di un altro. Ogni volta che inizia qualcosa, che ti metti in cammino, segni questa croce su di te come faresti se ti trovassi su una riva, sulla terra bagnata, di fronte a un vetro umido e a ogni altra cosa che può essere scritta. Dice: sono qui, in questo punto esatto. E anche: mi affido a questo tempo e a questo spazio, a questo momento e a questo luogo. Non farmi perdere, tienimi stretta nel tuo sguardo.

Chi legga questo messaggio non so dirlo. So che è un segno che presto si cancella, che bisogna ripetere di nuovo. È un po’ come con le scarpe allacciate la mattina per andare. Se le trovi slacciate poi durante il giorno, non puoi andare avanti molto, ti fermi un istante e ricominci.

L’invisibile: di questo vive la poesia. Di quale penna ha bisogno per riportarlo sullo spazio bianco?

La penna scrive e allo stesso tempo permette il distacco da terra e il volo, la possibilità di uno sguardo alto sulle cose. È anche, come ricorda Franca Grisoni in una poesia scritta nel dialetto di Sirmione, “pena”, ossia dolore trasformato, dolore che si incide nel nostro corpo e sulla pagina bianca. È il primo strumento con cui, da bambini, abbiamo lasciato segni, sulla terra bagnata, su un vetro umido. Ed è anche, come mi ha ricordato un polittico di Crivelli in cui è ritratta Santa Lucia, un ramo tagliato, una palma del martirio. Lucia in quel dipinto tiene la palma allo stesso modo in cui si potrebbe impugnare una penna; sembra quasi che potrebbe intingerla nel piatto che porta nell’altra mano dove, al posto dell’inchiostro, ci sono i due occhi che ha perso o ricevuto in dono. A lei ho dedicato una sequenza di frammenti, 13 dicembre, che sono al centro di Tutti gli occhi che ho aperto (marcos y marcos, 2020). Inizialmente pensavo fossero versi che non sarebbero entrati a fare parte del libro, perché troppo legati all’occasione che li aveva fatti nascere, poi come se si fosse a un tratto rischiarata la visione, mi sono accorta che erano invece in qualche modo proprio il punto di luce del libro, e che tutto ciò che conteneva entrava nella loro guida. Quella penna verde, quella palma, scrive nell’invisibile, come se fosse la sua pagina. È la penna che un angelo scuro ha lasciato cadere.

Qual è lo spazio bianco più caro a Franca Mancinelli?

È il bianco che sempre rinasce dalla parola poetica. Più della prosa, la poesia lascia spazio al lettore come all’altro che siamo, che siamo stati o stiamo per diventare. La poesia porta in sé profondamente le tracce dell’abbandono a quella caduta o volo che permette di finire e ricominciare, e quindi di condensare molte vite, che si avvicinano alle nostre labbra per essere espresse, e poi si ritraggono nel silenzio, con un ritmo simile a quello delle onde del mare.

Questa intervista di Domenico Segna, è uscita con il titolo Una semplice magia. L’incontro con Franca Mancinelli in occasione dell’uscita negli USA della sua ultima opera di prosa-poesia, su «I martedì», n. 361, anno 46, N. 4, 2023, pp. 50-53. In traduzione inglese si può leggere sulla rivista «The Antonym», January 27, 2024.

Foto di Chiara Broccoli

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