Ripropongo qui questa intervista legata al premio “Il Castello di Villalta“(2013) dove ero in finale con Pasta madre (Nino Aragno, 2013), insieme a Stefano Dal Bianco (Prove di libertà, Mondadori, 2012) e Enrico Testa (Ablativo, Einaudi, 2013); dopo la fine del premio e la chiusura del sito, non era infatti più reperibile in rete.
Perché in Pasta madre vi è forte la presenza di animali e parti del corpo? Sembra che siano finestre per uscire da se stessi per toccare il reale, tanto che Milo De Angelis ha sottolineato che “la similitudine è protagonista in Pasta madre” come “ricerca della prossimità, qualcosa che viene raggiunto giorno dopo giorno, tra domande, esitazioni e incertezze”.
Gli animali fanno parte di noi, del nostro essere più profondo. Li conteniamo a sciami, a branchi e stormi, nel nostro corpo, nel nostro respiro. Pensare ai nostri “contorni umani” attraversati incessantemente da una migrazione di altre forme, di altre vite, è per me una possibilità di salvezza, un modo di riconnettere quanto sembra fisso e concluso a qualcosa portato da una corrente più grande, in mutamento costante. Nella quotidianità, tra le pareti che a volte sembrano chiudersi su di noi, queste piccole presenze penetrano e divengono porte, finestre, ricongiungendoci ad una forza vitale, basica, che si perpetua e va avanti misteriosamente, nonostante tutto. Sono loro le bussole della nostra esistenza: mentre noi ci fermiamo, perdiamo il senso, loro non smettono di cercare cibo, di dirigersi. Sono figure di una metamorfosi, di un passaggio di forme, ma sono anche portatori di un principio di dissoluzione: questi animali che ci attraversano e che sono in noi, sono gli stessi che abiteranno il nostro corpo quando non sarà più in vita.
La similitudine è per me un ponte verso l’altro, una riparazione dalla solitudine, dall’angoscia. Se qualcosa è “come” un’altra è già salva, dentro la vita.
Il titolo della tua raccolta rimanda ad un ingrediente semplice e basilare, che si può modellare e necessita di essere tenuto in vita con pazienza. A quale aspetto di te o del tuo lavoro poetico essere riferito?
Il mio modo di lavorare con la parola poetica è in fondo anche il mio modo di essere, di esistere. Questo titolo fa riferimento a un periodo in cui il mio sguardo era richiamato dalla maternità biologica, osservata come un miracolo, un periodo in cui avvertivo in modo molto forte come scrivere fosse divenire madre di se stessi, prendendosi cura della parte più fragile di noi, sollevandoci da terra, come fa una gatta che riporta il figlio nella cuccia. La scrittura per me è una pasta madre, una materia umile, quasi anonima, che ha in sé un infinito potenziale di generazione, e allo stesso tempo è fragilissima. Se non viene accolta da qualcuno resta incompiuta, informe; se non viene nutrita muore. Come questo lievito naturale la scrittura può essere madre di tante cose, portandole alla luce, ma è solo nel rapporto con l’altro, nel suo spazio di ascolto, che lievita un senso. I testi di Pasta madre sono arrivati alla forma in cui appaiono attraverso tentativi ripetuti, attese, rimpasti. Sono nati lentamente, in un periodo in cui i gesti quotidiani più semplici, come preparare il cibo, mangiare, dormire, non avvenivano più in modo automatico ma chiedevano un senso. La poesia nasce come uno di questi gesti che ci mantengono in vita, uno dei nostri riti quotidiani. Ed è fatta di cose semplicissime, come acqua e farina: voce e silenzio, bianco e nero. È una materia ad altissima densità, un concentrato di parole e atti mancati, di storie e racconti sottesi.

La concentrazione delle immagini nei tuoi versi costruiti con equilibrio è uno dei tratti più convincenti del tuo libro, che continua il lavoro già evidente in Mala kruna (Manni, 2007) e che in qualche modo si unisce alla strada novecentesca di una poesia (ultimo esempio è De Angelis) che fa della densità stilistica una sua cifra forte. Com’è il tuo modo di fare poesia?
Lavoro a partire da immagini che iniziano a penetrare nella mia mente, come i segni inquietanti che lascia un’infiltrazione d’acqua sul muro. Sono immagini portatrici di qualcosa che preme, qualcosa di atteso e insieme temuto, quasi una minaccia. Frantumeranno quello che fino a poco prima appariva sicuro, familiare. Non faccio altro che raccogliere, contenere questa minima e continua perdita, fino a che non arrivo all’orlo, a un insostenibile silenzio. Allora traccio un primo verso, e pochi altri; a volte l’intero corpo del testo. Ma so che è solo un primo abbozzo: la forma che si imprimerà sul foglio spesso è nascosta sotto vari strati sovrapposti, come un fossile dentro una pietra. La poesia è la nostra impronta, la traccia fossile del nostro passaggio sulla terra. La densità stilistica di cui parli proviene forse in parte da questo lasciarsi scrivere interamente, con tutto quello che conteniamo, di cui siamo portatori senza saperlo.
Se ti volti indietro per un momento, cosa o chi ritieni sia stato importante per la tua poesia?
Ritrovarmi con le spalle al muro. Non potere più fuggire, nascondermi, rinviare. Un fucile piantato alla fronte, e ho aperto gli occhi. È stato un periodo molto doloroso che ho attraversato nei primi anni di università. Mi sono sorpresa in vita, come dicono sia concesso più volte ai gatti salvati nelle circostanze peggiori. E ho dovuto sostare in un regno intermedio, visitata dalle ombre, da pensieri ricorrenti. Da quel momento la scrittura, che mi aveva accompagnata già dalla prima adolescenza, è diventata qualcosa di diverso. A un tratto mi sono ritrovata al di là di un masso che mi aveva sbarrato la strada. Ero passata oltre, senza sapere come.

Cosa pensi dei libri degli altri due finalisti?
Il libro di Stefano Dal Bianco, Prove di libertà, mi fa subito pensare a delle “prove di volo”, e poi di felicità. La disposizione principale mi sembra sia quella del coraggio e dell’esposizione. Coraggio di nominare apertamente i valori, di indicare una via alternativa al dubbio sistematico di tanto Novecento, di cercare un’uscita “dalla gabbia” del dolore, ritrovando un centro di calore, di orientamento, di identità negli affetti familiari, nei gesti di ogni giorno. Esposizione del proprio privato, di «fatti in apparenza solo miei», liberandosi a tratti in volo, in una memorabile leggerezza.
Ablativo di Enrico Testa è un libro plurale, aperto a diverse direzioni, proprio come il caso della declinazione latina che lo intitola. Tra incontri, figure, sembianze e ombre del proprio io, sembra dirci che è soltanto in un viaggio nello spazio e nel tempo, in un transito, che è possibile rintracciare nel presente una parvenza di senso. Contro il male e l’angoscia, il passaggio principale che alla fine si apre è quello che ci ricongiunge ai morti (noi siamo loro «parte viva»), e insieme traccia un futuro attraverso quell’eredità di incertezza, quel “vuoto custodito”, passato al figlio.
Foto di Alessandra Calò