copertina Il privilegio di essere solo sguardo

Ciò che ricevo in dono dai sogni ha la forza di una scossa che a volte cerco di tradurre nei versi. Ma più spesso è in uno stato di dormiveglia che sono raggiunta da alcuni lampi di chiarore; semplici moniti come ti sei scordata la valvola del gas, oppure, lacerti di frasi, barbagli di immagini che mi chiedono di essere subito appuntati, nel buio, cercando a tentoni il taccuino che tengo sempre accanto. Questi segni lasciati come da un estraneo, in una grafia a volte indecifrabile a me stessa, contengono le linee guida di quanto poi cercherò di portare a compimento, di tradurre alla realtà. È come se in quel tempo sospeso, ai margini della vita, la mente lavorasse in una sorta di accensione, di concentrazione aumentata dalla prossimità del buio. Più che nel sogno, l’origine della poesia mi sembra in questa soglia tra sonno e veglia, in cui siamo restituiti a noi stessi, nudi, interamente e solo sguardo, interamente e solo ascolto. È in questo stato di percezione limpida che veniamo a contatto con la realtà, con la sua parte più autentica e viva, come un pulviscolo in eterno movimento. Ed è allora, con la forza della nostra attenzione concentrata che ci è concesso di agire sul reale, trasformandolo. Come ai primordi l’uomo ha ancora “il potere magico della parola” (Florenskij), la possibilità di modificare se stesso e il mondo, attraverso la valenza creatrice della lingua. La parola poetica (poieo: fare) ha in sé questa energia, questo movimento che porta nella realtà. Per questo perdere il seme poetico della lingua significa perdere la propria possibilità di agire nel mondo. La lingua a cui siamo assuefatti dalla comunicazione onnipervasiva ci rende inerti. Pasolini se ne era subito accorto alla metà degli anni Cinquanta, quando il diffondersi del linguaggio tecnico-aziendale veniva a formare il nostro italiano medio. Siamo parlati da una lingua che ha ben poco di umano. Anche la poesia sembra rifugiarsi nella comunicazione di un significato il più possibile immediato. Eppure la forza della parola poetica è tale quanto più è capace di attingere alla sua valenza originaria, tornando ad essere voce di un corpo che cerca, attraverso il ritmo, di stabilire un accordo con la realtà, per entrare nel suo mistero.

La poesia è per me un’esperienza che non è possibile prevedere o circoscrivere all’interno di un “progetto”. Ogni verso affiora da una faglia che si apre in noi. Il nostro compito è vegliarla, fare in modo che non venga ricoperta dai doveri della giornata. Nutrirci di silenzio come le piante di luce. Sostare quanto più ci è concesso in una condizione di soglia, dove può affiorare la vita con il suo incanto. Per questo amo i lunghi treni regionali e la pioggia, il privilegio di potere essere solo sguardo.

È sempre in un tempo indefinito che viene a formarsi una poesia, come un lento smottamento che a un tratto mi raggiunge. Ogni libro poi si compone secondo un suo ritmo e una sua storia. I versi del mio esordio, Mala kruna, sono nati dentro il fuoco di un trauma. Sapevo esattamente che cosa avevo bisogno di attraversare, ma mi mancava una lingua. L’ho cercata disperatamente. Con un’incertezza a tratti ossessiva, affidandomi a versi o brandelli di versi che si erano accesi e poi cercando di potarne a compimento la scintilla, sillabando nel silenzio o scrivendo e cancellando sul mio taccuino. Ogni verso aveva per me il significato di un tatuaggio. Si imprimeva in me, si stampava sul mio corpo. Con la stessa sofferenza, lentamente, giustificato da una necessità assoluta. La mia esistenza doveva riconoscersi in quei segni. È stata una gioia quando, a un tratto, mi sono ritrovata dentro la materia della lingua: la sua forza mi liberava, mi denudava e proteggeva allo stesso tempo. Non c’era più alcuna ferita da nascondere. Si era cicatrizzata dentro le parole.

La poesia mi ha condotto a questa sorta di precisione assoluta che abdica a se stessa. Fissando esattamente, con tutta la tua concentrazione, il tuo bersaglio, lo manchi sempre ma giungi a un punto vicino che si apre indefinitamente. La parola a cui sei arrivato contiene molto di più di quanto tu stesso le chiedevi; l’esperienza a cui volevi dare una forma si schiude mostrandoti la traccia di altre vite che non avevi sospettato. Tornando poi a lavorare sui testi, ho lasciato che si aprissero altri occhi nei miei; con la misura di questo distacco, ho aspettato che cadessero, come foglie secche, tutte quelle immagini che parlavano della mia vita senza riscattarla. Il libro si è composto sul pavimento, come cercando fondamenta. Un foglio accanto all’altro, formando sequenze che si scioglievano e frantumavano. Da una parola o da un verso continuava a provenire un sottile richiamo, come una perdita di corrente. Fino a che a un tratto è sceso finalmente il silenzio. “Prometti di non farlo mai più”, mi sono detta. Qualche anno dopo si è aperta la fenditura che ha portato Pasta madre.

da Poeti e prosatori alla corte dell’Es, a cura di Giancarlo Stoccoro, AnimaMundi Edizioni, Otranto 2017 – estratto dalle mie risposte al Questionario

Foto di Chiara Signoretti

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