dopo il parto notturno la gatta ripulisce con la lingua calda i cuccioli, gli occhi serrati le orecchie in cui vibra ancora l’eco del battito materno. con piccoli richiami si affannano al latte, affaticati per la distanza percorsa dal buio al suo amore. i banchi zoppi, incisi di epiteti i corridoi lunghi con i radiatori bianchi lasciati a ventilare dall’odore dei pasti riscaldati. fuori l’aria è elettrizzata la luce addensata come miele ambrato nel barattolo, il campo ronzante di papaveri spalancati all’estate. all’ultima campanella correte con le scarpe di tela nell’erba fino alla stazione insediata da piccioni e barboni. sanno d’ignoto le correnti dei treni che arrivano e partono – tendono una molla nel cuore che vi spinge sotto una parete imbrattata dai graffiti a ridere con gli amici. così li hai persi negli anni – scomparsi nel crepuscolo lungo i binari morti divorati dalla sterpaglia, nel vortice che ciascuno cova dentro dalla nascita. anche questo maggio fiocchi di gelsomino innevano il cortile, libellule come aghi intessono scie lucide sul cancello – ma nessuna risata di bambino rimbomba nella scala. quando torni dal lavoro controlli se nel cantuccio del portone c’è già il nido di una rondine – ma trovi solo il vuoto. c’è qualcosa di diverso solo che questa vita elettrica non ha memoria a sufficienza per custodire un nome alle cose. tra qualche anno neanche saprai cos’è quell’uccello nero che sforbicia il cielo. spietato il vento del mattino ha il sapore di labbra spaccate. un uomo trascina la valigia, l’ultima notte insonne sbavata attorno agli occhi. si volta a guardare la donna e non sa a cosa potrà servirgli ora conoscerne ogni neo, ogni rilievo di vena palesato sulla pelle. non startene al freddo, le dice. lei lo osserva allontanarsi separare le onde nell’erba affidata al volere del vento. la casa si è spogliata, il silenzio si spande nel vuoto. la donna accende il fornello piccole fiamme che si accalcano come se conoscessero il freddo. l’albicocca infetta del sole libera mosche fiacche nell’aria, dilata il tempo sull’asfalto. con la bici fendi i mormorii del vento e del grano, pensi di andare lontano ma sei allacciata alla gravità, all’ombra che stai trascinando. quando ritorni a casa l’ombra si ritira dietro le tende, nelle crepe dell’intonaco. rimani tu in piedi, le mani a penzolare inerti dai polsi. sul tavolo i fiori si dissetano all’acqua sporca. abbiamo visto la voce del fiume attorcigliato al canneto. la gola melmosa ingoia il chiarore, restituisce specchi infranti. lo attraversiamo, il cielo ci accarezza sott’acqua l’altra riva è ancora lontana. ti fermi a metà strada, mi giro tre sillabe il nostro nome pronunciate con agitazione. sei una bambina che ha imparato a navigare il silenzio di una ferita. sorridi pensierosa – non parli hai già affidato ogni storia. proseguo io in una resa al fiume, i sassi sotto i piedi sempre più acuminati i polmoni aperti a ciò che non si vede. offriamo il bagliore della torcia alla bocca scardinata della chiesa – il bosco è arrivato prima di noi, ha nutrito il legno di ossa selvatiche intrecciato affreschi d’edera e caprifoglio sulle mura, sul pavimento cosparso di lumini e inni strappati. c’è odore di bagnato, di foglie in decomposizione – sopra le panche allineate come costole il vento sospira nell’organo, cantano per noi i grilli nel coro. all’altare, dove la luce si avventura dal soffitto aspetta una stella, sposa lattea dall’abito impalpabile. dice: di tutte le creature è l’uomo a sollevare il velo agli occhi. venite a vedere di cosa siamo fatti. Foto di Verdiana Neglia