Ha scaricato dalla macchina l’acqua confezionata e la carta igienica,
anche qui una volta la neve si sdraiava sulla felce selvatica o sul plexiglass.
Sarà veramente finito quando non ci saranno più le ultime galline
e le uova si dovranno comprare, l’orto levigato lasciato a pareggiare l’erba.
«Forse devono liberare altri fagiani» la stessa frase
di fine agosto cambiata negli anni nell’accordatura della voce.
Da ragazzo ha brucato dal piatto una guerra dice
è venuto su insieme alla casa, razzolando i nidi dei merli
il latte bevuto piano.
Allora è così il fieno di un tempo mai avuto.
Se i miei ginocchi parlassero direbbero un’età che non ho.
Alla fiera zootecnica guarda sempre i trattori
io invece la signora che vende le oche.
Ogni volta aspetta dieci minuti prima di scendere dalla macchina, alza
il mento. Prima mi faceva ascoltare le canzoni degli alpini alla radio,
quando diceva che dal bosco viene l’aria buona che fa bene. Ho provato
a starci inghiottito: il cielo mi chiamava, gli alberi che dondolavano. Mi
chiedeva di andare a controllare la nostra uva, diceva che se piove
troppo il sapore si allunga perché non ha preso tutto il buono della terra.
Era già morto l’ultima volta che l’ho visto mi sorrideva
la morte sulle labbra con l’angoscia della pelle tirata.
Il soggiorno faceva l’odore del dopobarba e dei vestiti belli.
Poi non l’ho più rivisto. Non si è calato giù nella terra
sparito per sempre, l’hanno riposto in un cielo a pareti.
E più nulla, non ricordo con che fiori lo salutò il papà
sono passati sette anni e accarezza ancora i muri.
La pioggia ha dissotterrato l’afa e le parole che aveva.
Tutta l’impronta della voce, il piegarsi a un suono
dicendo «è pericoloso, non scavalcare la finestra»
passata come le pecore nelle transumanze cittadine.
Ho allineato agli anni l’odore del bosco quando fa sera
i polsi dell’apparecchiare la tavola, la macchia dell’olio
sulla tovaglia. È sempre troppo poco per riempire una bocca.
a Silvia
Il signor Casati carica la macchina coi sacchi per conigli
è stato le estati a rastrellare, a fare bello il suo pollaio.
Ha fatto il gesto di stare attento a non sporcarsi.
I nomi si hanno per le cose che restano
non mi sono più chiesto quanto sole renda una giornata
il tavolo con le carte da gioco, l’orologio sul muro.
Mario col libro in cucina al buio ha le mani di aver lavorato
gli occhiali da lettura nuovi, il cuscino compone una sedia.
«Fai il bravo» ha mimato col braccio alzato dove inizia la canottiera
i denti si alzano e si abbassano insieme all’aria.
Dal balcone ha visto l’incrocio, il cielo affossato dentro ai pini
l’insieme di tutti i racconti, i miei occhi che annuivano guardando.
Eccola la grande carcassa con le facciate divorate dal vento
una buca accanto per costruire un parcheggio
la lavanderia a gettoni, ciò che sfinisce a guardarlo.
È la lucertola che scanso col piede, le formiche
che eruttano fuori, il cemento su cui cammino.
Muore tutto da lontano mentre seppellisco questo prato
l’altalena sradicata, il mobile con le medicine, la credenza
il braccio misurato con le dita per dire che è rimasto magro.
Ha chiamato Antonio per svuotarlo in fretta, il sangue sepolto in un muro.
Conservavo nelle galline i pomeriggi chiusi a controllare che vivevo.
Come avere snocciolato i ricordi uno alla volta
prendere la porta vecchia e appoggiarla contro la parete
tutto spostato perché non serve più.
Il pollaio che conoscevo non esiste da martedì.
Pensavo le avrebbero ammazzate dopo la morte del nonno
come quando si sistemano i vestiti dei morti.
Foto di Flavia Criscione