copertina Arjeta Vucaj-esordi

Alcuni testi tratti dalla silloge P.m. di Arjeta Vucaj (Koplik, 1996), vincitrice, insieme a Giuliana Pala e Beatrice Restelli del premio “Esordi – Pordenonelegge” 2022. L’intera silloge si può leggere nell’ebook pubblicato dalla fondazione pordenonelegge.it, a cura dei giurati del premio (insieme a me, Roberto Cescon, Tommaso Di Dio, Massimo Gezzi, Azzurra D’Agostino). La premiazione, con i tre autori finalisti e i giurati, è domenica 18 settembre alle 18:00, alla Libreria della Poesia (Palazzo Gregoris), Pordenonelegge.

                                                                                  P.M. 


Giorno n. 8

Il rancore è stabile. I peccati sono precisi.
Non c’è reale disarmonia nei vetri 
lo zucchero sporco.
La mattina non esistono urgenze 
nella luce artificiale che ferisce 
la luce naturale.
Non rispondo mai davvero a una domanda.
I peccati sono precisi
come l’ampiezza dell’angolo 
che formano le scale.
La luce che resta nella stanza 
quando ce ne andiamo.
Il riflesso dei piedi nelle finestre basse.



[a.m.]

Il rumore dell’ascensore ci tiene in piedi 
quando si interromperà cadremo entrambi. 
Nella solitudine tutto è concesso.
Qui invece devo spostare le cose 
devo stare attenta,
ascoltare e guardare come 
ci si poggia a una parete.
Sposto i capelli da una spalla all’altra; 
lontano da, consapevole che –
il denaro che i genitori danno ai figli.

Adesso ho più freddo
e mi avvicino alla porta 
dove ricevo nelle dita 
tutto il pomeriggio.



Secondo paesaggio

Così ti affacci alle cose.
La sabbia umida testimonia la fatica del mare 
la fatica dei piedi che affondano a ogni passo. 
Affondare rallenta - resta solo
quel poco di sabbia 
che si è riusciti a trattenere.
Troppa l’attesa. Il tempo non è 
quel sospetto
che arriva a volte col vento leggero.
Il tempo è lo strumento di ferro
che dalla mano del dentista distratto 
ti cade sul petto.



[p.m.]

I
Adesso ricordo perché non mangio più niente. Vedo nelle braccia sui tavoli troppa distanza troppa vicinanza. Non voglio assomigliare a nessuno. Sono solo le otto di sera. Capisco che le farmacie sono chiuse, lo sento in ogni saracinesca. Una realtà ferma a metà. Non ho mai visto una strada così violenta.



Amb. 125


IV
Avviene sempre tutto con lentezza, qualunque sia l’urgenza. La mano si sofferma inutilmente in ogni punto. – Mentre si sente toccare esamina con cura la propria contrazione addominale. Si sente esposta alla luce e al soffitto. Se i vestiti si spostano e la ricoprono lei non si muove, non si scopre di nuovo, aspetta che lo faccia lui.

V
Quando si riveste la maglia sfiora la benda sul braccio rischiando quasi di staccarla: questo è l’unico dolore che le sembra totalmente ingiusto. Si ricorda di quando da piccola la vestivano gli altri e lei chiudeva gli occhi, teneva la stoffa delle maniche con le dita finché la sua testa non usciva dalla maglia. La lentezza di quel buio di pochi secondi veniva poi violata dalla luce metallica, dallo sforzo.




                                                                                         Celsius



T2

Siamo nudi accanto ai prodotti 
del supermercato.
La frutta dentro le buste trasparenti 
i surgelati bagnano il tavolo
i cartoni di latte – non mi piace, 
sembra sangue – lo bevevi solo tu.
La nudità è un prestito, ha qualcosa di 
domestico, qualcosa di sbagliato.
Basta una mano che stoni, 
un’imprecisa posizione della luce 
e tutto perde di significato.
Tossire per dell’acqua bevuta in fretta, 
non avere più fame
se ti viene messa troppa pasta nel piatto.



T3

Guardare è un verbo intransitivo.
Io non ti sto ricevendo, sei un’azione 
che si dimentica.
Ma non mi credi e continui ad appoggiarti.
Ci siamo seduti su tutti gli scalini 
per non scendere troppo in fretta.
Mentre mi parlavi mi sporgevo dalla finestra 
per non stare troppo dentro la stanza,
ascoltavo qualcosa che non capivo
– non volevo essere lontana, 
volevo che tutto mi assomigliasse. 
Anche un cancello chiuso.

[…] Per questa giovane autrice originaria di Koplik (Albania), la scrittura è legata principalmente a un’esperienza percettiva: scrivere è tentare di tradurre sensazioni che si dilatano con l’aumentare della capacità di abitarle, aderendo all’ambiente circostante, fino ad affondarvi: «Affondare rallenta», come scrive in Secondo paesaggio, conduce dentro alla materia delle cose, in una dimensione in cui per raggiungere l’altro diventa fondamentale la lingua, il «tasso di realtà» che può essere condiviso, per entrare in relazione e riconoscersi al mondo, insieme, oppure restare sulla soglia di uno spaesamento costante che rischia di confinare con la follia. È questo il piano leggermente inclinato, in continua ricerca di un assetto, a cui ci porta questa poesia. Possiamo ricordare, come suggerisce il testo T4, quella sensazione di confusione pervasiva e di perdita di baricentro che si vive quando si resta a lungo su uno scafo, in acqua, perdendo il riferimento che il nostro corpo aveva della terra come superficie orizzontale, ferma. E probabilmente non è un caso che, nella formazione di Vucaj, insieme alla poesia di De Angelis e di Benedetti, ci sia la danza, studiata prima in Toscana, poi a Parigi, dove si è traferita da alcuni anni. La centralità del corpo con i suoi movimenti e gesti, emerge dai primi testi di questa silloge che ci conducono in stanze chiuse e tempi rituali, scanditi dalle variazioni minime della «luce artificiale che ferisce / la luce naturale» […].

f.m. (dalla nota introduttiva)

Foto di Camilla Buzzai

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