Questo lettura di Angelo Andreotti è nata a margine di un incontro alla Biblioteca Ariostea di Ferrara nell’ottobre 2019 all’interno della rassegna “Canoni inversi” da lui curata. Il testo originariamente pubblicato sul suo sito, non è più consultabile, e per questo lo ripropongo qui.
I numeri di pagina si riferiscono al libro A un’ora di sonno da qui (2018), dove sono confluiti, con alcune varianti, Mala kruna e Pasta madre.
Franca Mancinelli, da Mala kruna a Libretto di transito passando per Pasta madre
di Angelo Andreotti
Mala kruna (2007) è ciò che nel titolo sta scritto: una piccola corona di spine. Ogni poesia è ciò che resta della puntura. Ogni puntura è dolore che segna e insegna. La parola che Franca usa è essenziale: poco resta della cronaca, la narrazione è appena uno spiraglio, che poi è una cifra della sua poetica; tutto delle sensazioni rimane, e tornano come un odore, o come un’immagine quasi accartocciata per un appunto da tenere in tasca. Il mondo è filtrato tutto attraverso i sensi, e tra questi è il tatto a fare da padrone.
prima che parole siano cera calda sono le mani a chiamarsi: una lingua preistorica come la pietra sorda come lo scroscio. Domando e un’altra cosa rispondi tanto è vicino il palmo saldo, su un precipizio poi il mento sulla tua spalla, le orecchie una sull’altra, i nasi opposti. (Mala kruna, p.25)
Versi incisi, più che scritti. Che non temono di interrompere il senso pur di indicare al lettore un altro ascolto. Indicano, ma non dicono. Si spezzano ma non interrompono. Ciò che manca lo chiedono a chi legge, e chi legge a sua volta non deve rispondere ma darsi. Fidarsi.
che qualcosa finisca e non resti l’affetto come una spina in bocca. Così la veste che le labbra hanno cucito punto dopo punto. (Mala kruna, p. 42)
In Pasta madre (2013) il verso è meno urgente ma più consapevole. Si purifica ulteriormente ma soprattutto passa dal Sé al sentimento della cura, dell’attenzione, di una continua lavorazione che la pasta madre impone se la si vuole mantenere in vita. Ma non la poesia è pasta madre, semmai la poesia è il continuo lavorio, la cura e l’attenzione (appunto) che mantiene in vita la vita stessa. Che ne conserva il senso. La poesia è la mano nuda, forte e insieme dolce, sapiente e precisa, che la rinfresca stringendo e stirando con la consapevolezza di dover onorare una promessa di nutrimento.
Qui il verso è più limpido, per quanto sempre preciso (e forse di più) nel delineare le sue immagini:
penzola a vuoto a un lato del letto i piedi bruciati; il pavimento trattiene il suo volto in vene di marmo. La luce si allarga come una macchia. Qualcuno urtando ha versato un altro giorno. Torneranno a tracciarsi le strade alle scarpe che vanno confermando i confini di cose tra cose. (Pasta madre, p. 96)
I “confini”. A ben guardare non sono frontiere, e lo spazio che segnano non è quello geometrico ma quello relazionale che spesso distingue, e a volte sovrappone:
non distingui un nido da un intreccio di gesti, non distingui uno sguardo da un pozzo Non distingui le braccia dall’edera che stringe in una rete. A un’ora di sonno da qui ti svegli fiutando le tracce dell’uomo che ieri abitava i tuoi stessi vestiti. (Pasta madre, p. 105)
Qui la poesia è un gesto. Forse anche l’espressione di un volto o, meglio, di uno sguardo che ferma un tempo. Ne emerge una poesia dell’attimo, dove passato presente e futuro coincidono quasi in un colpo d’occhio. In fondo sono attimi esiliati dal tempo, quasi ritrovati in quella sorta di dormiveglia in cui ancora si pesca dal mondo del sonno.
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Libretto di transito (2018), che rende esplicito uno stato di trasmutazione interiore, ancora si nutre di quel dormiveglia. Le immagini, i fatti, sembrano sgusciare dal profondo di un sonno breve per conquistare, ancora impastati di magma onirico, l’attimo della veglia e della concretezza degli oggetti. La forma scelta è quella della prosa, ma il ritmo ha i colpi di scalpello della poesia.
A volte un breve annuncio ricorda la linea gialla, a volte è soltanto un rumore che si avvicina. La fenditura che si apre dev’essere arginata subito con le mani che si aggrappano a qualcosa, gli occhi chiusi. Ci si stringe alla panca, agli oggetti che si hanno con sé, fino a che il treno trascorre al nostro fianco. Con il tremore di qualcosa di enorme, per cui dobbiamo ancora aspettare. (Libretto di transito, p. 14)
È il transito l’oggetto del libro, non la meta, non il viaggio. E il transito è lo stato d’animo di una ricerca che forse è anche attesa, sosta dentro un treno che scorre portando immagini esteriori e interiori. Quel che si deve fare è aspettare l’incontro che accade «dove si incrocia lo spazio nel tempo».
Ogni partenza in fondo non è altro che un cercare dove restare:
Le frasi non compiute restano ruderi. C’è un intero paese in pericolo di crollo che stai sostenendo in te. Sai il dolore di ogni tegola, di ogni mattone. Un tonfo sordo nella radura del petto. Ci vorrebbe l’amore costante di qualcuno, un lavorare quieto che risuona nelle profondità del bosco. Tu che disfi la valigia, ti scordi di partire. (Libretto di transito, p. 34)
Oppure si finge di partire:
In giardino le auto dei grandi restano aperte, a volte con la chiave inserita nel cruscotto. Puoi entrare e sederti nel posto di guida, portare tuo fratello nel sedile di fianco, gli amici dietro, oppure partire da solo, girando il volante alle curve, un po’ a destra e un po’ a sinistra, premendo il pedale del freno o dell’acceleratore, guardando dallo specchietto quello che resta alle spalle. Di fronte, una stessa immagine ferma: le foglie del tiglio che si aprono nella luce, I piccoli occhi rotondi dei cocoriti in gabbia. (Libretto di transito, p. 38)
Libro irrequieto questo. Poesie che non potevano essere scritte se non in prosa, o forse appunti presi affinché diventassero poesie, ma in quella forma scoperti autosufficienti, già compiuti nella loro inconsapevole autonomia:
In questo paesaggio posso chiudere gli occhi e dormire, senza il rimorso di aver interrotto il narrare del treno: come si vive, come sono disposti gli alberi e le case, che cosa stanno facendo gli uomini. Il racconto continua silenzioso, mentre penso e seguo altre voci. È un tragitto compiuto tante volte, che basta poco a riconoscerlo. Guardo soltanto il fiume. Il rumore delle rotaie sul ponte mi sveglia. (Libretto di transito, p. 45)
Se in Mala kruna le spine sono il passato (remoto o prossimo non importa) e in Pasta madre si assume la postura della cura, qui sembra emergere uno scavo interiore in cerca di senso. Un punto di svolta in un percorso poetico già di per sé significativo.
Foto di Raffaella Ballerini