copertina intervista Alberi maestri

Gisella Blanco, «Alberi maestri». Intervista a Franca Mancinelli

Il paesaggio naturale e il corpo umano continuano – nonostante la distopia del contemporaneo – a compenetrarsi a vicenda, in uno scambio di simbologie e profezie che non sfuggono allo sguardo del poeta. Abbiamo dialogato con Franca Mancinelli, una delle voci poetiche più vibratili e riconoscibili del nostro panorama letterario, a partire da Tutti gli occhi che ho aperto (Marcos y Marcos).

A differenza delle molte nature che si incontrano in poesia, come quella che induce l’uomo alla riflessione sulla vita – mai idilliaca – di Stefano Dal Bianco, o quella psico-linguistica di Villalta, la tua compartecipa dell’esistenza umana, senza antropomorfizzarsi. Ce ne parli?

Uscire dai nostri confini di umani e sporgermi il più possibile verso ciò che non è ancora stato tradotto nella nostra lingua, è ciò che cerco di fare con la scrittura. Non so in che misura sia possibile, concretamente, in che misura resti un’intenzione, una direzione di rotta. La lingua di cui disponiamo è infatti quella plasmata e tenuta in vita da noi umani, per cui rendere la natura a nostra immagine e somiglianza è in qualche modo inevitabile. Ciò che possiamo fare è aprire la nostra lingua il più possibile all’ascolto delle lingue della natura, composte per lo più di silenzio, un silenzio apparente, abitato da fruscii, vibrazioni. In questa dimensione di ascolto protratto, scandito dal cammino, attraversando un bosco di faggi nell’Appennino centrale mi ha raggiunto una voce che proveniva da un albero e che rispondeva alla domanda che portavo dolorosamente, senza parole, nei miei passi: «Tutti gli occhi che ho aperto / sono i rami che ho perso».

Alberi maestri, intitoli una sezione. Che pensi della natura come contraltare dell’io lirico?

Più che un pensiero è una percezione: mi piace abitare un corpo più vasto di quello che nutriamo e vestiamo ogni giorno e riconosciamo normalmente come nostro. In questo corpo più grande i rami degli alberi si confondono con le nostre ossa, i nostri nervi, i nostri vasi sanguigni. Siamo forme di uno stesso organismo vivente, a cui apparteniamo insieme agli animali e alle pietre. Vivere questo corpo, percorso dalle autostrade e dai venti, attraversato dalla pioggia e dalle polveri sottili, è una risorsa di vitalità e di energia e insieme, inevitabilmente, anche di sofferenza e di angoscia.

“Chiudo gli occhi, e attraverso l’immagine”. La poesia può ricondurre al sentimento della meraviglia, a volte smarrito?

Sì, la poesia ci riconduce alla meraviglia che è nel profondo della vita stessa, del nostro essere qui. Per questo appartiene a ogni cosa e soprattutto a quelle più quotidiane e semplici. Ci chiede di entrare pienamente in noi stessi e, attraverso questa ritrovata presenza, lasciare ai margini il nostro io per riconoscerci nella vibrazione che attraversa l’universo.

Il verso che citi è probabilmente il cardine di Tutti gli occhi che ho aperto: è con questa visione che il libro ha trovato la sua forma ed è in questa visione che chiede, a chi percorre le sue pagine, di entrare. Negli occhi che si aprono sotto le palpebre, in quel buio denso di scie e di luce in viaggio, è la porta per tornare nella casa del cosmo, oltre le pareti delle singole esistenze.

Questa intervista di Gisella Blanco è uscita sulla rivista «Leggere Tutti», n. 177, giugno 2024.

Foto di Raffaella Ballerini

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