Vega Tescari, Come, postfazione di Fabio Pusterla, Cronopio, Napoli 2018.
A parte
Se ne erano dischiuse a decine; avevano scricchiolato un momento e poi di colpo si erano aperte, tutte insieme. Le luci erano soffuse, ma si riusciva comunque a scorgere un luccichio e a sentire un suono ovattato, un respiro che cresceva a poco a poco.
Le avevano nascoste per mesi sotto uno strato di paglia; ogni tanto di notte andavano a spiare dalla finestra della stalla immaginando in silenzio cosa stesse succedendo. Le guardavano per ore senza vederle. Stavano lì, con le mani sui vetri che si appannavano con i loro fiati; ogni tanto credevano di vedere qualcosa, di sentire un movimento, ma era il loro stesso battito cardiaco, il suono del loro respiro che riecheggiava nell’oscurità. Piano scendevano dal gradino e in punta di piedi tornavano a casa.
Quella sera faceva troppo freddo e avevano deciso di entrare nella stalla; avevano aperto piano la porta, giusto uno spiraglio che li facesse passare e l’avevano richiusa lentamente, accompagnandola fino alla fine. Si erano tolti le scarpe, le avevano lasciate in un angolo e un passo alla volta erano avanzati al buio con una torcia quasi spenta. Si erano inginocchiati davanti al pagliericcio fissandolo senza distogliere lo sguardo; a un certo punto la paglia aveva iniziato a muoversi, poco, solo in certi punti, come smossa da un filo di vento. La torcia ora era spenta e dalla luna scendeva una luce flebile. Attraversava il buio e si stendeva davanti a loro.
C’era stato un rumore sottile, qualcosa che si rompeva dolcemente, senza che nessuno facesse nulla. In quei minuti lunghi entrambi trattenevano il respiro; entrambi si erano sporti un po’ di più, tenendo le mani premute al suolo. Cercavano con lo sguardo qualcosa là sotto, qualcosa che era cresciuto da solo e che ora giungeva senza aver bisogno di loro. Pieni della loro inutilità, erano ospiti sereni di qualcosa che non li aveva attesi.
Non li avrebbero toccati, nemmeno erano certi di volerli vedere. Ma li sentivano. Li sentivano respirare in un mondo lontano, ancora a parte.
Rive
La notte stava finendo e un’alba rossa affiorava piano sul lago, tra le montagne.
Eravamo seduti per terra, sul ciglio della strada; hai preso una matita dalla tasca e hai contornato il paesaggio nell’aria. Piano, con gli occhi mezzi chiusi, seguendo il profilo degli alberi lontani, a tratti più veloce per seguire una nuvola che si spostava. Hai messo un punto alla fine e poi con la mano hai fatto un gesto come per cancellare tutto.
Ti eri dimenticato di girare attorno alla riva del lago, ho detto. Hai sollevato le spalle e hai risposto che non importava, perché è meglio un lago senza rive, che possa uscire.
Ti sei lasciato cadere sulla schiena e hai chiuso gli occhi. Ieri, quando siamo arrivati davanti alla strada che avevamo cercato, non eri riuscito a entrarci; avevi detto che si era fatto tardi e che non c’era più tempo per andarci. Mi stavi dicendo che non era quello il motivo. Sono stato zitto, sapevo che era stata una scusa.
Hai detto che quella strada la conoscevi bene, abitavi non lontano da bambino. Erano anni che non ci passavi. Non era capitato niente, dicevi; ma un giorno, quando avevi sui vent’anni, l’avevi attraversata di corsa per arrivare da un’altra parte ed eri inciampato, cadendo di fronte a un portone. Una ragazza era corsa fuori da un negozio per vedere se stessi bene; quando avevi alzato la testa ti aveva chiesto se era tutto a posto e avevi visto che perdevi sangue da un ginocchio, sotto i pantaloni strappati. Tutto qui. Ora non sapevi dire come mai il giorno prima non fossi riuscito a passare da quella strada. L’hai detto quasi con tono interrogativo, forse aspettavi che io dessi una risposta o domandassi qualcosa.
Mi sono sdraiato anche io sulla schiena; ho girato la testa verso di te e ti ho chiesto che cosa ricordavi di quella strada, oltre alla tua caduta. Hai detto che avevi sentito l’odore del tuo sangue mischiarsi a qualcosa di dolce, un altro odore, che proveniva da qualcosa che non conoscevi. Non avevi più sentito un odore così. Ti ho chiesto se era un profumo che proveniva dalla ragazza. Non era lei, qualcosa in cui anche lei era immersa. Ti sarebbe piaciuto ritrovare quell’odore e tu e lei e la strada fissati come in un disegno in cui poter rientrare.
Hai sorriso e hai detto che non ci sarebbero state rive di lago da contornare. Non ci sarebbe stato nulla, solo qualche linea che si riuniva in un punto e hai tracciato col dito un movimento nell’aria. E io sarei stato là, hai detto, puntando in una direzione indefinita, al centro di qualcosa, in un’alba che si scolorava piano.
Abitare
Aprivano le finestre e sentivano l’aria entrare con forza, sospinta da qualcosa che avrebbero voluto toccare, in cui loro stessi avrebbero voluto sprofondare. Un tempo fatto di aria, di bianchi di luce soffiati da ore lontane, da luoghi dove erano già trascorse. Pioveva il tempo di un’altra galassia, avrebbero detto.
Si erano seduti sulla soglia delle case in cui avevano abitato, guardando ogni volta davanti a sé come a voler scorgere i secoli, gli anni e i giorni; quelli vissuti nel loro tempo e quelli di altre epoche, che continuavano a rilucere nelle cose, nei gesti, in quelle dimensioni in cui loro stessi erano stati immersi da sempre; quegli attimi che si chiamano albe, tramonti, il momento di uscire, di alzarsi. Istanti abitati senza sapere, non misurati.
A volte si sentivano avvolti da un colore che non riuscivano a definire. Forse quello dei loro corpi, e dei corpi insieme alle cose e ai luoghi, in epoche lontane, in mondi che loro, in qualche modo, avevano abitato.
Per non
Si vedevano strane cose; scintille di qualcosa che bruciava lontano. Sulla porta ci riparavamo gli occhi e stavamo fermi a osservare. Erano colori come non se ne erano mai visti, che cambiavano in continuazione.
Qualcuno era stato avvisato; presto tutto sarebbe finito. Non ci voleva molto ad arrivare fin là e già pareva di udire i passi, l’avanzare in mezzo ai campi, lo scricchiolio dei rami caduti a metà strada, le fronde che si impigliavano per un attimo negli abiti.
Camminava piano; gli avevano detto che non era niente di grosso. Bruciava qualcosa, ma lentamente, in un piccolo spazio.
Noi cercavamo di godere ancora un po’ di quel bruciare, di quegli occhi diversi che sentivamo di avere. Soffiavamo in silenzio, da lontano, su quella cosa che bruciava; per tenerla ancora un po’, per non farla affievolire. Per vedere ancora, per non scomparire.