copertina Prisco De Vivo

Prisco De Vivo, “Il lume della follia”

Sette poesie di Prisco De Vivo da Il lume della follia, prefazione di Alfonso Guida, Oèdipus 2019 con una nota inedita di Guido Caserza

FIORENZA

Tu grazioso corpo
tu vestitino di seta 
tu faccia arata
tu delfino ferito 
allontana questa bocca 
che stride all’infinito 
scordati di me
              di te
delle tue ruvide mani
che in un lampo di radice 
divennero
LUCE DI SANGUE.

                          19 Maggio 2002




ALLA STAZIONE

Sopra e sotto
le pensiline si azzuffavano 
2 rimanenze d’uomo
2 vegliardi che non amano vivere.

Dal piscio della scala mobile
mi fissavano.
Il più brutto 
piangendo di me
si segnò una croce sulla fronte.

                                11 Luglio 1998




DAVANTI AL CANCELLO DI CASA

Quanti occhi spenti e grumosi 
rivedrò risplendere nel buio?
Immagino di danzare su strade bagnate 
con l’umiltà e il desiderio
di fluttuare come una piuma.
In questa malinconia mi sento accarezzare
la nuca da una fragile Santa.
Sono fermo davanti al cancello di casa.
Ecco che arriva il vento
e gli alberi si chinano alla mia ombra.

                                             7 giugno 2017



L’EDIFICIO

Bere quintali di acqua fresca 
e avere fauci secche
in aridi sensi 
non è da tutti.
Ci sono edifici 
bianchi come farina
con tetti rossi di terracotta
quelli che hanno una sola finestra
che da decenni
han fatto specchiare
Van Gogh, Hoderlin e Artaud
sulla stessa faccia.




TRASFIGURAZIONE

Sono anni
che non mi soffermo più 
sull’opalescenza dei fiumi.
Come codardo cane
(non riesco a sfregiarmi la bocca) 
a svuotarla da un’infinita inutilità.
Voglio nullificarmi 
davanti ad antichi portoni 
con i piedi bagnati
e la mente ulcerata 
dai desideri.
Voglio diventare un tronco d’edera.

                                         Maggio 2001



TI RIVEDO

Ti rivedo in un mattino 
che assomiglia alla notte.
Ti rivedo con un vento freddo
ti rivedo come una foglia tremula 
lontana dai suoi alberi
hai un giubbotto rosso
accartocciato e incappucciato alla testa. 
Sei un monaco senza più convento 
aggrappato alla noia dei suoi passi.
Mio magro cero che m’illumina il cuore 
fammi dimenticare
fammi allontanare dai ricordi.




LETTERA DI MIO ZIO

Sono rimasto al salone del cemento
 ho mangiato verdure di fiori
e i bambini mi facevano giocare 
con vecchi tamagotchi.
 
Non importa se sono vecchio e malato 
minato di difterite
se il corpo mi saluta.
Il caporeparto mi ha detto:
“Tu vivrai a lungo sei il chiodo di Cristo uscito dalla  
croce”…
Quando riuscirò a morire veramente
liberandomi dall’inferno,
delle colonne coclidi,
dal polistirolo dei farmaci 
dalla dissenteria dell’anima.

La poesia di De Vivo è l’espressione di un sentimento violento: tutto, in questi versi, richiama alla mente la fatica e il dolore della materia. Ogni parola suona come l’emanazione di una ferita che si porta dietro il Caos e la nostalgia del Cosmo, ogni parola vale per sé stessa e solo in seconda battuta come elemento di un verso e di una strofa. Questo valore assoluto della parola è poeticamente affascinante: esso incarna ed esprime una tensione espressionistica a stento contenuta nelle brevi, compatte gabbie strofiche. Leggendo queste poesie, vengono alla mente i Prigioni michelangioleschi, gli antichi precursori della pittura e della poesia espressionista, figure prigioniere della materia e violentemente, quanto vanamente, tese al di fuori di essa. Dovessi racchiudere in una formula la poesia di De Vivo, così concentrata sull’icasticità figurale, userei quella di realismo espressionistico.

Guido Caserza

Foto di Samuele Bellini

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