Libro forte, per più di un aspetto affascinante e inquietante, Verso la ruggine trae spunto da una catastrofe ambientale, o per essere più precisi da un eco-crimine perpetrato alcuni anni or sono e seguito a ruota da altri avvenimenti nefasti che riguardano il Brasile ma che per metonimia valgono per tutti noi […] nel novembre 2015 crolla una diga nello stato di Minas Gerais e il contenuto tossico di un gigantesco bacino […] si riversa nel principale fiume della regione, il Rio Doce, devastandolo. […]
Con una lingua essenziale ma niente affatto semplice, molto attenta a distillare dentro di sé una musica di profondità, con immagini lievi e potenti, questo libro raggiunge un non facile risultato: parla di una vicenda lontana da noi, senza per questo risultare né esotico né antropologico; ci dice che Watu scorre qui, nei nostri giorni, fra di noi, e che il fiume, il nostro fiume, non piò più chiamarsi “Rio Doce”, perché ogni dolcezza è tramutata in fiele. (Dalla Presentazione di Fabio Pusterla, La lingua nera di Prisca Agustoni).
Sette poesie da Verso la ruggine, Interlinea 2022.
“dicono gli abitanti delle sponde del Watu che esiste un corso d’acqua che percorre le nostre origini più remote, nato dalla faglia originale della specie e varca la dorsale umana, vegetale, geologica del mondo, unendoci nel corso dei secoli. Questa ferita ci attraversa come una fossa oceanica, silenziosa, profonda e corrosiva, lavorando per secoli e secoli, sedimentando in silenzio, finché un giorno l’acqua diventa stagno rosso, un catino riverso di sangue. Una lingua tossica che lecca la terra, la scorza dura del mondo e la ricopre di fosfati, residui metallici, vernici, amianto, diserbanti e pece. Il livore della specie verso qualsiasi forma d’eternità”. tra la fossa e la vita ci sono diversi strati di polvere e la voglia di far ruotare lo sguardo dentro, sotto lo sterno, per scoprire se altro c’è, se altro vi si trova oltre il nero nel buio del villaggio entra il crampo del rumore, un boato sordo e duro che contrae il sonno. Mentre tutti dormono, il bambino, sonnambulo, cerca il ciuccio perso tra le lenzuola e il cuscino, a occhi aperti e piedi nudi si dirige fino all’uscio e senza vederla riceve la notte in pieno volto, un urto violento, il pugno sordo dell’universo esplode in un punto nascosto la prima crepa, poi cresce sottile la ragnatela che intelaia la terra le falle sparse disegnano affluenti, una cartografia della catastrofe quel reticolato di fiumi delle vene azzurre ai polsi che si diramano nel palmo aperto fino a scomparire nelle lunghe dita di lama nera sul fondovalle dove anse di melma precipitano fuori dal tempo in cerchio deporre chicchi di riso grani di faglioli piccoli sassi in cerchio stringersi attorno al fuoco per dirlo alla terra, sei nostra, è qui che siamo nate dove spunteranno radici alle ossa come germogli alle patate poi, con voce già scura, intonare il canto che invoca l’umido centro dell’uomo questa sagoma quasi un’ombra riversa nel pantano spugna o fossile sputato dalla terra pesce migratorio imbalsamato nella torba che a nuoto risale i secoli salta di golena in golena fino ad incagliarsi nella lava tossica come conchiglia che conserva nel suo mantello le ultime parole dei morti nella roccia troverete le impronte, gocce secche che vi diranno di noi, di una devastazione senza radici nella lingua o nella falda acquifera ma negli alberi, anima viva del mondo, il libro che ci parla della genesi di una civiltà appena nata dal metano sull’argine del nostro fiume morto e grigio come lo stagno ci sono anfore in creta ridotte a riserva d’olio d’aceto e di piscio, dove il cielo è d’albume e l’amore, l’amore si stringe a tuorlo dentro ai corpi sporchi di un giallo cupo, a richiamare a sé il raro spasimo della specie * Watu è il suo nome, il fiume sacro della tribù Foto di Francesco Ventura