copertina "Poesia e contemporaneo"

«Mio secolo, mia belva». Poesia e contemporaneo

Prospettive nuove della poesia 
Ospiti: Tommaso di Dio, Franca Mancinelli, Giuseppe Nibali

Trascrizione dell’incontro del 21 marzo 2018, all'interno della rassegna
MediumPoesia (via Laghetto 2, ChiAmaMilano), ora in Poesia e contemporaneo.
A dialogo con i poeti contemporanei, vol. 1, LampioniAerei, Milano 2019.

Francesco Ottonello: Benvenuti al terzo incontro della rassegna MediumPoesia: Poesia e Contemporaneo, intitolato Prospettive nuove della poesia, organizzato dal gruppo studentesco «Lampioni Aerei». Gli ospiti di oggi sono nati tra gli anni Ottanta e Novanta e sono Tommaso Di Dio, Franca Mancinelli e Giuseppe Nibali. Avevamo pensato per questo incontro di iniziare con la lettura dei poeti, per poi passare alle domande “liturgiche” su “Poesia e Contemporaneo”, e a quelle relative alle prospettive nuove della poesia. Quindi, passerei subito la parola ai poeti.

[…]

Allora, passerei a fare la domanda, liturgica o canonica, su poesia e contemporaneo. Agamben scrive: «Contemporaneo è colui che percepisce il buio del suo tempo come qualcosa che lo riguarda e non cessa di interrogarlo. Contemporaneo è colui che riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo». Quindi vorrei chiedervi: cosa significa per voi essere contemporaneo e nello specifico poeta nel contemporaneo?

Tommaso Di Dio: Il saggio che tu hai citato più volte in questi incontri è davvero liturgico: secondo me dice qualcosa di importante. Rivendica qualcosa che nel nostro momento storico, artistico, spesso è difficile da accettare, è difficile da vivere profondamente: cioè l’idea che l’arte debba essere anacronistica, debba essere storta, debba essere obliqua; debba essere uno sgambetto, una caduta, non un tronfio stare sul piedistallo del proprio tempo. Oggi siamo purtroppo subissati e sommersi da un’idea che passerà, forse sta già passando, un’idea dovuta a un eccesso di visione, di sovraesposizione degli eventi. L’evento è quella cosa che accade e immediatamente è mediato da un infinito sistema di strumenti informatici, telematici, digitali. Per cui è qualcosa in una sfera digitale, in una nuvola, in un accadere simultaneo di server nel Texas o nella Russia: un brillio degli schermi. Ecco, oggi, se non brilla sugli schermi qualcosa non è, almeno così spesso ci sembra. E invece il saggio di Agamben dice qualcosa che ci aiuta a riposizionare lo sguardo sul punto, perché il contemporaneo è cecità, non è visione. «È investito dal fascio di tenebre», dicevi così. Il poeta non è Calcante, per usare i termini omerici sollecitati dal mio amico Giuseppe, cioè non è colui che vede il futuro, prevede, ci illumina, ci guida. No, è uno che nel buio cammina. Nel buio, con le mani avanti tasta e cerca e quindi sbaglia, cade, finisce nel pozzo, come diceva prima. Bellissima l’immagine della faglia di Franca; cade nella faglia, ne riesce e racconta qualcosa, ma è nel buio, balbetta. Prova un discorso possibile, prova: è messo alla prova dal discorso. Questo dire non può stare nei circuiti (adesso dico una cosa e mi correggo subito) dove si cerca la sicurezza, dove si cerca l’affidabilità, l’affordableness, l’effortless: il senza sforzo. No. L’arte sta nello sporco, nel problematico, nel complesso. Qualcosa che stiamo dimenticando radicalmente, il complesso, l’importanza del complesso. Oggi l’arte ha il dovere di essere difficile, complessa, una sfida ai 100 caratteri di Twitter, una sfida agli algoritmi di Facebook. Cioè, dev’essere intransitiva rispetto a questi mezzi, non può stare in questi mezzi senza farli apparire. Ovviamente, l’artista è nondimeno un uomo, comunque vittima del suo tempo, vive nella mediazione del suo tempo; quindi è probabile che avrà un cellulare, un lavoro, si vestirà, avrà delle scarpe: ma non è lì la sua arte, sono accidenti del suo tempo: capite? L’arte cerca qualcosa che mette insieme, non so, un poeta contemporaneo come Mario Benedetti al pittore Francisco Goya, che mette insieme Francisco Goya a Baudelaire. L’arte mischia i tempi, li fa scintillare, li fa saltare: salta i ponti dei tempi. E quindi non sta nel suo tempo in una maniera prona o, in qualche modo, in una comfort zone nel suo tempo (e uso apposta il lessico del potere che ci domina, il lessico dell’invasione che subiamo). Il poeta in questo resiste, tasta nel buio. Avanza, avanza a furia di complessità, di cecità, di buio, di problematicità: si mette in questione. Oggi quasi non è più pensabile che un artista si metta in questione. In quale medium può esistere una questione come questa, oggi? Voi vi immaginate a parlare in televisione così, di queste cose? Ecco, non ci sono i mezzi oggi che possono ospitare questa frattura. Dobbiamo aggiungere, per onestà, che, forse, non ci sono mai stati. Noi abbiamo dimenticato che questa è la grande storia dell’arte: il Salon des Refusées. Nello studio di Nadar si incontravano quelli che oggi sono sui manuali di letteratura. Nadar era un pazzo, era un terribile pazzo: uno che abbandonò la pittura per un’arte che non c’era, una tecnologia a cui nessuno avrebbe dato due lire che era questo scherzo della fotografia. Quindi stare ai margini, ecco. Il tentativo dell’artista è quello di spingersi nel buio fino a toccare le pareti della grotta, quasi prossimo al pozzo artesiano, alla faglia, sempre con il rischio di cadere nel buco e di non rialzarsi più.

Franca Mancinelli: Sì, sono completamente in sintonia con quello che hai detto. L’immagine del buio, a cui fa riferimento anche Agamben, è in realtà un buio attraversato da una luce che non siamo in grado di percepire: e quindi è un buio luminoso, ma di una luminosità invisibile, che va al di là delle nostre percezioni. E il poeta tenta questo rischio, di andare oltre: di essere così in contatto con la realtà da poter percepire quello che attraversa la realtà senza quasi raggiungerla, attraverso i nostri occhi umani. Ma magari raggiunge gli occhi di altri esseri, o di altri esseri che ci attraversano, di altre forme di vita. Il compito della lingua della poesia è quello di scontrarsi o comunque lottare contro questo nucleo di inespresso, contro questa barriera, contro il limite che sono le parole: che sono sempre povere, che sono sempre piccole, ma allo stesso tempo sono – come ci insegna Florenskij – un deposito antichissimo di tutta l’umanità che ci ha preceduto. La lingua italiana è un pozzo, è un tesoro immenso, e ogni volta che la nostra attenzione raggiunge di nuovo una parola e le dà vita, rivive in noi tutta l’attenzione, tutti gli sguardi di quelle persone che hanno pronunciato quella parola e che l’hanno creata. Questa è un’idea di Florenskij,che per me è un maestro enorme, e mi ritrovo tantissimo in questa sua idea di una parola che ha un valore magico in senso antropologico, laico, ovviamente. E per me, appunto, il contemporaneo, riallacciandomi anche al filosofo Agamben da cui si partiva, è in questo saper riattingere all’origine. Ritornare di nuovo al principio, riattraversare tutto per ripartire dall’inizio, e quindi ritornare all’origine della parola, a quella forza che la parola aveva all’inizio, che gli riconosceva ogni popolo primitivo, ogni civiltà, di far esistere quello che pronuncia, di farlo esistere pienamente, pienamente di portarlo alla luce e di farlo avverare, di provocare metamorfosi, di provocare cambiamenti. Questa è la forza della parola poetica, che la nostra società tende, in modo più o meno inconsapevole, a silenziare, a imbrigliare, perché se davvero si utilizzasse la parola in questo modo saremmo ingovernabili, avremmo una potenza enorme e veramente raggiungeremmo ogni volta quel nucleo magico della realtà da cui può ricominciare tutto. Io inconsapevolmente, in qualche modo, quando scrivo versi, riconnettendomi al ritmo, cerco questa origine oscura nella parola: la cerco così come cerco ogni volta una metamorfosi. Ogni volta è come in una preghiera, si chiede, pienamente, con tutto se stessi che qualcosa accada. Penso che sia questo per me il contemporaneo: cioè cercare di raggiungere la realtà, cercare di raggiungerla portando la propria energia trasformatrice e in un modo che va oltre, almeno questo è il mio istinto, che va oltre i nostri contorni di umani, cioè che va oltre anche la nostra individualità, ma che accoglie quello che ci passa attraverso: e quindi la luce attraverso il buio, e quindi le voci degli altri esseri, degli altri umani, delle piante, degli animali. Questa è un po’ istintivamente la mia ricerca, la mia strada.

Giuseppe Nibali: Grazie Franca. Io ho amato chiaramente il saggio di Agamben. E Agamben in quel saggio cita un poeta che io amo molto, Osip Mandel’štam, per una sua meravigliosa poesia in cui dice: «Mio secolo, mia belva, chi potrà / guardarti dentro agli occhi / e saldare col suo sangue / le vertebre di due secoli?». Quindi, come a dire: chi riuscirà a sopportare il peso, e addirittura il sacrificio, quasi cristico, il sacrificio del sangue che è richiesto alla fine di qualunque rito. Ha valenza salvifica, cioè è un sacrificio che salva l’uomo dal suo tempo, dalla belva, dalla bestia, dal mostro del suo tempo. E noi oggi viviamo, per quanto mi riguarda, in un tempo assolutamente mostruoso, assolutamente divorante, dove c’è veramente poco tempo per l’empatia e anche, chiaramente, per tutto quello che a questa è associata. Quindi la ricezione letteraria, la ricezione artistica sono difficilissime in questo tempo. E qui arriva il problema: il contemporaneo è una cosa che riguarda la ricezione, non l’atto, non il gesto. Il gesto avviene nel suo tempo, che potrebbe essere anche posto fuori dalla storia. È posto nella storia solo ed esclusivamente perché dentro la storia si consuma, e dalla storia, da quell’animale altro, che è la storia, prende la sua forza. […]

Michele Milani: […] Che impressioni avete sul mondo della poesia contemporanea di oggi, che tanti (come Giovannetti) hanno definito estremamente variegato, caratterizzato da percorsi individuali, da micro‐poetiche, da scelte sempre discutibili? Come vi ponete rispetto alla situazione attuale della poesia contemporanea in Italia?

Tommaso Di Dio: […] Mi viene in mente un incontro che ho fatto a settembre ad un seminario con un matematico di fama mondiale: Fernando Zalamea, di Bogotà. Lui disse una cosa strepitosa, cui noi non pensiamo mai. Disse: «ah, ma la matematica adesso è nel massimo pieno della sua storia. Se guardiamo alla matematica delle origini era poca cosa: la matematica del Novecento e degli ultimi quarant’anni è tutta la matematica. La grande fioritura della matematica è degli ultimi trent’anni». Voi sapete qualcosa della matematica degli ultimi trent’anni? Voi capite, nella poesia forse siamo nella stessa situazione. Questo è un grandissimo matematico, insegna a Bogotà, è considerato una delle cento menti più influenti del pianeta. Lui ci ha detto candidamente che eravamo fuori dal nostro tempo: cioè, oggi nella matematica ci sono delle scoperte sensazionali, fantastiche, di cui il 99,99% della popolazione non sa niente. Ecco, anche nella poesia, secondo me, c’è una produzione di qualità molto alta, forse veramente come mai c’è stata nella nazione italiana. Anche perché, semplicemente, mai così tante persone hanno saputo leggere e scrivere e quindi hanno avuto potenzialmente accesso alla scrittura e al patrimonio letterario. Si scrive tanto, e devo dire, tanta, tanta buona qualità della poesia. Qual è il problema? Manca, ancora, la capacità di assorbire, digerire, strutturare questa quantità. Tanto che, per esempio, anche il libro di Giovannetti – che è stato un ottimo proposito, cioè fare chiarezza nel panorama complesso della poesia contemporanea […] – rischia di sottrarre all’attenzione del lettore una delle caratteristiche più peculiari della produzione degli ultimi trent’anni, ovvero quelle figure, quelle scritture che stanno in mezzo fra le grandi categorie possibili: cioè quegli scrittori che riescono ad attraversare degli stili, che sono molto diversi tra loro e riescono a farli propri. Allora questa capacità di ibridare – una categoria che usa spesso una mia amica che è Maria Borio – ibridare i vari stili del contemporaneo, senza un pregiudizio ideologico su questi stili, come avveniva negli anni Settanta per esempio, è una caratteristica del nostro tempo: siamo in un tempo di grande libertà stilistica, di grande eclettismo, vorrei dire, in senso finalmente fertile però: senza più nevrosi. Questa è un’ipotesi, ma si potrebbe dire moltissimo su questa strada.

Franca Mancinelli: Ascoltandoti mi sono venute in mente alcune cose. Una è che forse la scommessa contemporanea, adesso, è quella di parlare di una realtà che è intessuta di irrealtà: cioè una realtà che è intessuta di virtuale, è intessuta di ombre, di vibrazioni, di altri stati dell’essere. Anche fisicamente: un corpo che muta, che può contenere parti che non gli appartengono. Forse questa è una delle sfide sempre più presenti. E poi l’altra cosa che mi era venuta in mente è quella di un’idea di comunità, che comunque io sento molto, e ho vissuto e vivo e ogni volta ricerco nella poesia, nei compagni di strada, nei fratelli, fratelli maggiori, maestri: cioè, cerco questo sentirsi a casa, finalmente ritrovare qualcuno che vive nella parola, finalmente risentirsi accolti nella lingua. Perché la lingua, ritornando a un tema di una domanda iniziale, è la nostra madre, la nostra madrelingua che ci mette al mondo. E quindi sono grata e riconosco veramente con commozione, con gioia tutti quei momenti in cui finalmente si ritorna a casa. Poi, un’altra immagine che mi è venuta in mente, legata a questa della comunità, è quella che viene da un’esperienza di lavoro che ho fatto tanti anni fa come cameriera. L’ho scritto in una prosa poetica, in cui confronto il lavoro del cameriere, che è fatto di sguardo, di presenza, ma allo stesso tempo di distanza, con il lavoro della poesia. Il bravo cameriere è quello di cui non si chiede mai, non devi chiedere di lui perché appena ne hai bisogno lui c’è, è questo sguardo che osserva la realtà. Ma allo stesso tempo mi sono accorta, in un attimo di questo lavoro faticoso in cui mi ero immersa, in cui mi ero persa, come i camerieri riescono a lavorare tra loro, nella sala, avanti e indietro, sintonizzandosi con uno sguardo: “porti tu la bottiglia, vai tu a chiedere gli ordini”. E mi sono detta: “ecco, così deve essere scrivere”, perché non siamo soli mentre scriviamo, ci sono gli altri nostri compagni che stanno lavorando nella stessa sala, e se non ci siamo letti, se non ci conosciamo, se noi non abbiamo lo sguardo, portiamo cinque bottiglie su uno stesso tavolo che non voleva nessuno. E questi potrebbero essere i nostri libri, tutti chiusi perché non ce n’era bisogno, perché non abbiamo guardato né i nostri compagni che fanno lo stesso nostro lavoro, né le persone che vorremmo raggiungere. Ecco, questa era un’immagine antica di una mia esperienza sepolta.

[…]

Francesco Ottonello: Proprio perché si è parlato di comunità, leggendo un’edizione Einaudi del ’48, Poesia ininterrotta di Paul Eluard, tradotto da Fortini, mi sono segnato dei versi da Le travail du poète,che mi hanno ispirato questa domanda. Vorrei chiedervi se esiste ancora una linea ininterrotta tra i poeti che arriva anche ai poeti contemporanei della nuova generazione, se questa linea è stata incrinata e in che modo. Vi chiederei, poi, se avete dei modelli di poeti o di artisti che ritenete genitori in qualche modo del vostro lavoro poetico.

Tommaso Di Dio: Ho un rapporto vivissimo con la letteratura del passato e, anzi, credo che non possa darsi letteratura se non come comunione in una tradizione poetica; se non come immersione in un discorso già detto, in un fluire di parole già state. Si matura lo scarto, ma lo si matura all’interno di un terreno, diciamo così. Quando parlo di pratica della poesia parlo della poesia che va da Omero ai Salmi fino a questa poesia di Franca Mancinelli. […] fare poesia è sicuramente comprendere la storia della poesia e il problema della continuità (a cui accennava benissimo prima Franca con le parole di Florenskij) non è altro che il problema delle voci che parlano nella mia voce. Quando sento di scrivere una buona poesia sento che c’è qualcosa, non perché c’è la voce di Tommaso Di Dio, ma perché sento che risuonano delle voci che appartengono alla storia della parola umana. Per cui non penso possa esistere poesia al di fuori di questa eco. C’era una poesia che volevo citare prima di Baudelaire e non l’ho fatto, ma torna bene adesso. Si chiama Les Phares (I fari) e dice una cosa bellissima: ovvero, che l’arte è un grido ripetuto da mille sentinelle. L’arte non fa che lanciare un grido che si ripete di sentinella in sentinella. Mi ha ricordato un po’ l’immagine dei camerieri nella poesia di Franca. E allora è arte quel grido ripetuto, che non è mai il primo grido: che è sempre il grido di un grido di un grido di un grido… fino al vuoto del grido, fino a quel grido che fu silenzio.

Franca Mancinelli: Sì, in effetti saremmo, come dire, poverissimi e ridotti alle ossa se non ci nutrissimo delle voci di chi ci ha preceduto. Per cui è istintivo come mangiare leggere i classici, i classici senza tempo. Ascoltandoti ripensavo anche a quel che dicevi, che riconosco anch’io: quando ci si trova di fronte a una poesia o comunque a un brano che in qualche modo ci libera, si avverte un senso di riscatto, di vittoria, di gioia, di riconoscimento, che va al di là di tutto e per cui attraversi i secoli, attraversi le identità, e sei grato a quella persona, che sia Dostoevskij o che sia un altro. Questo lo sento molto, il momento della poesia come momento di riscatto, di liberazione da una gabbia, da una prigione, da qualcosa che ci ha tenuto distanti, che ci ha tenuto in un silenzio sofferente, perché c’è anche il silenzio che è attesa, che è preparazione, che è preparazione di qualcosa. Io ho sempre portato con me gli autori che ho amato dalla prima adolescenza in un taccuino dove segnavo come un amanuense tutte le parti che sottolineavo e che venivano ricopiate in questo taccuino perché di fronte alla bellezza non puoi fare altro che riviverla anche con questo gesto fisico della mano che ripete, e quindi il corpo che assorbe la parola, lentamente. E poi questi foglietti me li portavo nelle passeggiate in campagna e me li ripetevo; per cui alla fine entravano in me, li sapevo a memoria. E quindi nei momenti in cui ne avevo bisogno potevo ritrovare Montale, potevo ritrovare Pascoli, Petrarca. Tutti quei versi che mi avevano raggiunto da studente, mi avevano raggiunto attraverso un’antologia. Però, per qualche motivo avevano brillato di una qualche luce che mi aveva fatto dire: “questi li porto con me, questi li voglio proprio nel mio sangue, li voglio nella mia memoria”. E questo penso sia il senso della tradizione, delle parole che ci nutrono e di quelle che cerchiamo: sono alla fine quelle che possiamo ridire o anche se non le possiamo ridire a memoria quelle che nella pagina conservano la voce, quelle che conservano un tratto di oralità, di vita. Quindi tu senti: “qui c’è una traccia vera, qui la vita è affiorata, qui è conservata”. Per cui quella traccia è stata custodita, protetta, ed è rimasta. C’è una frase molto bella di Pasolini, a cui sono affezionata che dice: “nessuno deve sapere che un segno riesce bene per caso. Per caso, e tremando: e che appena un segno si presenta, per miracolo, riuscito bene, bisogna subito proteggerlo e custodirlo come in una teca”. Ecco io penso sia anche questo la poesia, questo senso di custodia, di protezione che ereditiamo e la cui bellezza viene passata da una generazione all’altra.

Giuseppe Nibali: Bellissimo quello che hai detto, veramente. Penso che sia impensabile scrivere una parola senza averne lette tante: cioè, non è proprio possibile […]. abbiamo il dovere di raccontare il nostro tempo e dobbiamo farlo in un determinato modo, ma per questo è impensabile non appoggiarsi ai morti […]. E in questo senso, mi sono fatto ridare Ultima da Tommaso, perché uno di noi quattro ha fatto un saggio come una sorta di cadavere squisito sul modello surrealista, un saggio tutto di citazioni di grandi autori del passato, tra cui una che mi sembra assolutamente calzante, sia per citarvi un nome importante del pensiero mondiale, sia perché dice esattamente qual è la pratica per correre verso il futuro. Il testo è di Walter Benjamin, Angelus Novus, e fa così: «egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta». […]

Fotografie di Alessandra Calò

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