Maria Lo Conti (Messina, 1985), ha esordito in poesia con Addomesticare le bestie (2018). I testi che seguono sono un estratto dalla sua raccolta inedita Voce che risponde
I
Perché hai cura di me.
Da quale mondo oltreumano provieni.
Dov’eri, qual è il tuo nome.
Come mi conosci, come sai il mio nome.
Come fai a vedermi, dietro questi cenci
dietro le lenti degli occhiali, come
mi riconosci. Quale strumento alieno usi
quale sensibilità extraterrestre hai
quale bestia sei.
Come hai fatto a raggiungermi,
come mi hai trovato.
II
Cantavi. Eri balena, spuma di mare
sirena. Eri questo sorriso appena schiuso.
Eri uovo, indulgenza, ragazzo. Eri l’altra mano.
Eri la corsa, il nome di via Montecristo
il messaggio che arriva di notte
eri lontanissima nel tempo
eri dove vivo e tu non vivi più.
Eri negli appuntamenti mancati e nelle attese
e nelle attese sei voce che risponde.
Non ricordo la prima volta
che sono uscita da sola
se fosse estate o inverno
se avessi undici anni o tredici
non ricordo dove sia andata
per raggiungere chi
per acquistare cosa.
Non ricordo se ho avuto paura
o l’entusiasmo, l’ebbrezza
delle prime volte.
Dovette sembrarmi
normale, nessuno accanto
le mani lungo i fianchi.
Non come adesso
quando sguarnita, indifesa
solo la mia ombra riconosce
negli altri la fortuna
di avere un corpo.
L’anima avrà pure
una qualche ragione
da rivendicare
ma intanto
la sciolgo nel bicchiere, giro
due volte il cucchiaino
e subito scompare.
Al mattino sente con me il risveglio.
Quando mi alzo si alza
come uno sciame dal petto.
È la mia schiera,
mi guarda le spalle
mi apre la strada.
Toglie il passo
al mio passo.
Senza i suoi soldati
un generale è solo un uomo.
Il mio valore è dato
dalla fedeltà dei miei fantasmi.
Guardano con i miei occhi
parlano con la mia voce
muovono le mie gambe
fanno razzia ovunque
nel mio corpo.
Io sono fedele
alla mia schiera, concorde
alla congiura.
Pratico la mia libertà
con disciplina, dandomi
alla fuga come una cerva
incalzata da un dio.
Nelle trame del bosco
cerco due occhi smarriti
quanto i miei
e sul verde di quell’altare
offro quanto di più prezioso
mi è dato, lo plasmo
in forma di preghiera.
Quindi attendo
una voce che risponda
sebbene parli una lingua
sconosciuta agli altri.
Il dolore abita grandi stanze
e dentro fa il suo verso alto
batte più volte
il vuoto delle pareti
allunga in tutti gli angoli
le sue zampe sottili
poi si cuce intorno
una tana morbida
diventa un bambino
nella culla e buono
paziente, senza strepitare
aspetta che tu lo sfami.
Tutta la vita si riduce a questo:
accettare che quel cerchio
si stringa a noi sempre più intorno
contare uno alla volta
quelli che abbiamo perso, assicurarsi
di essere ancora dentro
corpo e pensiero
e tutto quello che si può disfare.
Qualcosa che ritieni
indispensabile
con ossessione scava
in te un’altra forma di te
si prende il tuo buio
e un altro ne porta
come dono di nozze.
Foto di Rosapia Araneo