Coordinati dal loro docente, il poeta Daniele Ricci, gli alunni della 2 A del liceo classico Nolfi hanno lavorato in gruppo, in modalità cooperativa, raccogliendo i loro appunti su Tutti gli occhi che ho aperto, attorno ad alcuni nuclei tematici: la natura, l’amore, i migranti, la visione aperta dalla poesia.
Gli appunti che seguono sono il lavoro di: Caterina Longarini, Marta Mancini, Teresa Gabbianelli, Clotilde Irrera, Marco Francioso, Caterina Francioso, Flavio Fossataro.
In Tutti gli occhi che ho aperto compaiono spesso gli alberi e in generale la natura, che sembra rappresentare una speranza. La donna migrante che prende la voce nelle prose iniziali dice che è finito il tempo a disposizione e anche i soldi, l’unica cosa che le rimane è la speranza, per questo prega. «L’anima» che appare tra i rami di un albero è un manoscritto arabo, come si evince dalle note alla fine del libro.
dietro questa faccia di cartapesta risplende in tutti un sorriso perenne.
Ognuno di noi ha una «faccia di cartapesta», ovvero una faccia finta, fatta di scarti, la faccia che mostriamo ogni giorno. Il secondo verso di questo frammento contiene una certezza granitica, che quasi spaventa: «risplende in tutti un sorriso perenne». Ma perché, allora, non mostriamo questo sorriso? Forse a causa della società, che ci opprime, quasi ci soffoca e ci nasconde dietro strati di cartapesta.
Nel frammento seguente l’autrice paragona la vita ad un filo e la morte ad una perla. Vita e morte, come yin e yang, sono uniti per formare un’armonia. Le morti, quelle dei nostri cari, quelle che “attraversiamo” nel corso della nostra vita, ci abbelliscono, proprio come le perle abbelliscono un filo.
sono le perle del tempo, le morti le attraversiamo come un filo.
Dopo la sezione iniziale, Jungle, la parola passa agli alberi, visti dall’autrice come degli esseri che ci fanno da maestri, insegnanti e protettori. Gli alberi vegliano su di noi, assomigliano a forme d’esistenza superiore a cui possiamo connetterci solamente per pochi istanti.
Nella breve prosa «era inerte l’aria» l’autrice si immedesima in un albero cresciuto malformato per sopravvivere nel mondo in cui si trova dove varie cause lo costringono a cercare aria pulita e quiete. Queste cause possono rinviare a ciò che viviamo e proviamo nella nostra vita, ciò che ci cambia e ha un importante peso sulla nostra persona.
Come emerge dal testo che intitola il libro, gli alberi ci mostrano che ogni sbaglio o doloroso accadimento ci insegna qualcosa di nuovo e utile che ci fa crescere, non dobbiamo lasciarci abbattere, perdite e ferite fanno parte della vita di ognuno.
La poesia seguente ci guida in una visione che si apre in un giorno di pioggia all’interno di un bosco, al riparo degli alberi, chiamati «custodi». Questa visione è descritta come qualcosa che va oltre «la gabbia degli occhi». L’autrice ritiene che la natura possa portarci a nuovi modi di guardare il mondo.
entro nella pioggia come in un bosco –ali fittamente intessute aperte e richiuse sotto la scorza. Cammino, la nuca protetta dai miei custodi, liberato lo sguardo dalla gabbia degli occhi.
Il profondo rapporto che ha l’autrice con la natura, è evidente anche in un breve testo di un’altra sezione, «la terra, una pagina scura», in cui la scrittura viene paragonata a un campo da coltivare. Con un chiasmo sintattico nei primi due versi le parole vengono scritte e i semi sparsi. Nei versi seguenti il buio della natura fa sì che i semi gettati si sgranino e le parole si dissolvano, per poi riacquisire senso e perderlo ancora una volta.
la terra, una pagina scura: ciò che cade si scrive frantuma e sgrana nel buio raggiunge il senso, si perde.
In numerose poesie di Tutti gli occhi che ho aperto la natura è protagonista, come per esempio nella seconda parte di Alogenuri d’argento, nella breve prosa «aspetto che scenda la luce». Mancinelli descrive il rapporto tra uomo e natura come qualcosa che si è rotto, a causa dell’uomo che non si cura della natura, il mondo infatti «ha già chiuso gli occhi». Di fronte a questa indifferenza, a questo modo di trattare la natura da parte degli umani, l’autrice non può fare altro che stringere al petto le pietre, queste creature viventi, e poi “riconsegnarle”.
Un altro tema centrale in Tutti gli occhi che ho aperto è quello dell’amore. In uno dei frammenti iniziali della sezione che intitola il libro, la parola «pietà» sembra una richiesta di perdono. Il «nero andare» si può interpretare come un cammino che provocherà sofferenze oppure come dolorosi avvenimenti passati. «Ha i denti questo giorno» forse perché il tempo avanza inesorabilmente. Il “fiotto che affiora” può rinviare a un sentimento nascosto o segreto che da un momento all’altro potrebbe emergere, sgorgare. Le “sillabe incidono le mani”, forse nel dolore provocato da parole ricevute.
In un breve frammento della sezione Luminescenze, l’immagine dell’amore come «furto» può suggerire un amore tossico. Qualcuno le ha “rubato il cuore” («furto con scasso»), ma lei non si è accorta (l’allarme non è scattato). Nei versi seguenti l’autrice impersonifica l’amore: ci porta infatti, come una borsa, a tracollo; una borsa in cui sono presenti tutte le nostre debolezze, le nostre «miserie»:
l’allarme non scatta, ma è un furto con scasso. L’amore a tracollo ci porta: sua borsa, dentro ci mette la nostra miseria.
Secondo il dizionario, una «luminescenza» è un’emissione di radiazioni luminose. L’autrice collega queste radiazioni momentanee ai nostri ricordi, a stralci della nostra vita, che riaffiorano e svaniscono, per poi riapparire nei nostri pensieri, in ciò che scriviamo. Mancinelli paragona la scrittura anche a una «camera oscura» che le permette, come nel processo fotografico, di immortalare ogni cosa.
Il primo frammento in versi di Camera oscura si apre con l’immagine di una stanza ostile e soffocante, chi la abita è paragonato a un pezzo di pane che si sbriciola; «corpo e sangue» sono come un residuo che da spazzare via. Questa immagine evoca un senso di impotenza, forse una violenza. Anche il frammento «in ruminare paziente» sembra rinviare a una relazione tossica, sviluppatasi lentamente nella quotidianità in cui una persona non ti permette di vivere la tua vita normalmente, ma appunto te la “divora”, in un circolo di dipendenza, per cui anche chi divora non può fare a meno di quel rapporto, è «sazio come una carestia».
in ruminare paziente ti sta divorando la vita, sazio come una carestia.
Camera oscura si chiude con il frammento «siamo noi, polline e polvere», che contiene forse l’immagine di un amore tormentato, probabilmente vissuto fugacemente («poche ore» per lunghi periodi di lontananza). Il paragone con la chioma di un albero «prima / della bufera» esprime l’incertezza, l’instabilità di questo sentimento che potrebbe vacillare da un momento all’altro. Il verso seguente si ricollega al titolo del libro, rinviando alla vista, agli occhi che parlano più di qualsiasi parola.
Un altro tema importante in Tutti gli occhi che ho aperto è quello del migrare. Torna infatti all’inizio e alla fine del libro e in alcuni frammenti al centro, come tutti nella stiva premendo dove è ritratta una scena disumana: muovono braccia e gambe i migranti nel tentativo di salvarsi, ma la barca sta affondando e i loro corpi saranno dimenticati negli abissi del mare.
Nelle prose di Diario di passo la neve è legata alla dimenticanza che cade su tutto ciò che è successo sulla rotta Balcanica e riporta la pace. In Non puoi perdere o dimenticare in questo viaggioè descritta l’importanza del passaporto, che definisce uno spartiacque tra chi può passare il confine e chi no.
«Quello che è stato / tornerà con la pioggia» scrive l’autrice in una sequenza dedicata ad antiche statuette votive. Ciò che è stato non potrà mai essere cancellato, riemerge dandoci indizi di ciò che è accaduto. Questi versi fanno parte della sezione Specchio ricurvo. Il fatto che sia «ricurvo» fa pensare che abbia subito tante cose, come la voce che parla in questi frammenti che alla fine è pronta a scrollarsi di dosso ogni peso, ogni «urto» per poter vivere liberamente in un’altra dimensione, forse oltre quella terrena.
sepoltura. E inizio. Sono invasata. Vivo in custodia della terra, a mani immerse come radici lavorando.
La parola «sepoltura» può rinviare a una morte interiore, evidenziata anche dall’uso del punto fermo. Ma a contrasto di questa fine c’è la congiunzione «E» posta tra «sepoltura» e «inizio» come a simboleggiare una tregua o una pausa. L’autrice sembra paragonare se stessa a un vaso che contiene la terra. Questo frammento può rappresentare la visione di un’esistenza: c’è un principio, un inizio, e poi una vita vissuta con la certezza di lavorare con dedizione quasi come se il lavoro fosse una radice, una possibilità di ancorarsi alla terra. Un’immagine di solidità e di resistenza, come le antiche statuette votive che erano fissate sulla roccia con piombo fuso, «a cospetto del vuoto», che può essere legato alla morte. Se potessimo avere i piedi ben saldi potremmo in qualche modo sfuggire alla paura della morte.
negli occhi chiusi una sorgente di pupille –luminescenze trascorse tra globi custodi di un’unica immagine gravitante nella polvere esplosa.
Da questo frammento è tratto il titolo della sezione Luminescenze. Un momento di quiete e di grande spiritualità, apre la visione dell’universo. Chiudendo gli occhi la mente viaggia attraverso i pianeti, in un fiume di stelle, di punti come «pupille». Questo grande viaggio ricorda il percorso della vita, i ricordi che, come un’immagine luminosa appena osservata, persistono.
siamo noi, polline e polvere. Poche ore per ere di lontananza. Come la chioma di un albero prima della bufera. Avere due occhi riconoscerti. Di ogni tuo nome porto alla bocca tre sillabe di silenzio.
Foto di Francesco Ventura