Jacopo Curi (Macerata, 1990) ha esordito in poesia nel 2019 ha pubblicato L’immagine accanto (Arcipelago itaca). Una sua silloge è apparsa su «Poesia», con introduzione di Milo De Angelis). Alcuni testi inediti dalla raccolta Evidenze elementari.
Hubble vede nel tempo, ma il tempo non esiste
nel movimento autosufficiente dell’universo
fuori da questa grammatica che comprime
il pensiero in un linguaggio. Così la vita
si fa parola, possibilità di nomi, didascalia
del mondo, quando basterebbe
l’incoscienza stupita di queste colline.
Anni luce oltre questo silenzio concavo
nessuno avverte i resti della materia
radunarsi per generare altre coscienze.
Inventeranno anche loro nessi e proiezioni
cuciranno gli occhi alle colline.
Quale pronome raggiunge la luce
la frequenza che scuce l’alone dal faro
e cosa insegue la fuga di particelle,
cos’è riuscito a entrare nel vedere.
La luna è un satellite. Lontano un cane abbaia.
Più lontano altri rispondono. Sono tre, forse quattro.
Il campanile è un blocco inerte e verticale. La campana
fa dodici rintocchi gravi e due acuti. È mezzanotte e mezza.
Dilatate nel corpo che risuona giungono rimestate
le immagini dei sensi. La ringhiera al tatto è più fredda
ma non significa nulla. Le cose sono quello che sono.
Le cose non dicono. Noi soli le facciamo mentire.
Se dietro la fila di tetti e pini domestici
tu potessi vedere la testa del Conero
la quercia solitaria in mezzo alla collina
e il grano verde tra poco in levata; se io
calamitato dall’orizzonte in fuga lo seguissi
se potessi uscire da questa pelle
da questa identità precaria per essere
il tutto l’ovunque e l’ogni tempo
nel campo sconfinato dell’infanzia.
Notte preistorica, superficie stagnante.
Un nodo si scioglie, il semaforo lampeggia,
la terra completa un giro. Quanto pesa
adesso un pensiero, quanto fa rumore
un rumore improvviso.
Non sapevamo che avremmo dimenticato
che tutto sarebbe divenuto inaccessibile.
Almeno si può scegliere di non rimuovere
i contorni di una somiglianza, le frenate
del sangue: quando da piccoli giocavamo
a nascondino, accucciati dietro un muretto,
quando c’eravamo nello stesso luogo
puntuali ogni mattina, quando dicevi
mai e per sempre ciò che non è stato.
Nessun ricordo sostiene la nitidezza
di una vista di tetti rossi, realmente rossi
di colline verdi, realmente verdi
ma c’è un più occulto vedere
di cui soli si è i testimoni:
l’aver visto, il voler vedere ancora.
Quando al tavolo rimangono i soliti
usciamo dalla forma del discorso,
le occhiaie pesano e nell’abisso
imperscrutabile del bicchiere
la sclera specchia ciò che siamo.
Mentre si rovescia la notte
tiriamo i capelli all’estate
per non far scoccare il giorno
in questa pioggia che deterge
l’ultimo strato di memoria.
Torniamo in infusione
nell’esame di coscienza,
urla il gallo, l’aria si sfina
ma tu sei qua io sono là
e non ricordo dove
ho lasciato la macchina.
L’illusione di credere che sia illusione
il paesaggio, leggerne la ritirata sulla linea
dell’orizzonte. Così avanzare mentre tutto
indietreggia, entrare nel quadro con l’olivo
al centro della collina, voltarsi e incrociarsi
fissarsi fino a riconoscersi.
Foto di Samuele Bellini
 
 