Alcuni testi dal secondo libro di poesia di Daniele Giustolisi, La condizione dell’orma, peQuod 2025.
a Diana che arriva
Ancona è questo tempo che scioglie i pendii,
sei tu entrata al mattino
in un movimento d’alba,
quando agosto è l’acqua ferma del porto,
risveglio di tavolo, radio, pane,
la resa che s’innalza da terra,
la sua somiglianza alle vele,
a questa rotta adriatica
che della tua forma consegna il nome.
X
Ora compimento sei
l’appena che avanza,
l’orma diradata del mio mondo,
la sua intima distanza.
È apparsa piano come la neve
come un lume nell’inverno
la vela bianca sul molo orientale.
Non si alza il vento dalle strade,
non aprono a niente le curve gelate
dove sbandano, talvolta,
piccoli cuori impianurati,
viandanti leggeri e dispersi
tra le nebbie delle campagne.
Lei che nessuno vede
porta in terra le sue nuvole.
Si direbbe un’ombra del tempo
che al tempo non cede
eppure, guardala,
affiora tra la nebbia,
la tuta che piega
sparge nell’inverno
l’odore del campo.
A che giustizia rispondono
gli anni dell’uomo
che vende qualcosa sulla soglia.
A nome di quale figlio
rinuncia alla resa.
L’uscio ci separa, no, grazie,
come se fosse normale poi
che ognuno vada così,
solo e disarmato
incontro alla sua contesa.
Su un vetro di cucina
un dito traccia
nomi che non so,
mistero, gioco, rovina,
lettere d’acqua sciolte
nell’inverno che non dà respiro.
Piano scomparirà
nella luce bassa di Ponente,
nell’onda che passa
come una mano
che mentre ama cancella.
Taccuino VI
Alla fine, ciò che volevi era cantare canzoni semplici. Farlo nell’aria, nelle stanze una volta abitate. Qui è dove siamo cresciuti, dove le stagioni non erano: il caldo, l’inverno, la paura dei giorni, solo idee di un mondo adulto. Possiamo piangere le sere e tenere tutto il dolore dentro, ma senza sprecarlo: non si può soffrire sempre, ripetevi. Poi mi hai detto «ora posso esistere fino a dove mi vedi». E allora ti ho baciata sulla guancia e custodita con lo sguardo fino a dove potevo, fino a dove all’improvviso non sei più stata, chiusa tra la folla e il mare che in lontananza spingeva altrove le sue isole.
Chi ti custodisce ancora,
corpo,
in che lampo di memoria
sei restato ad attendermi,
ospite indifeso
di un’altra ragione?
Sembri concentrata quando dormi
su una ferma eternità delle cose.
La custodisci sola, nella notte che viene,
per noi che restiamo sulla soglia.
C’è pure una bellezza
che nulla rivendica.
Ci sei tu come il manto del mare,
mistero azzurro
che non lascia orme.
Parlavi di Roma,
e di come la Pietà
soffiasse a ogni cuore.
Ci indicava la strada,
Maria con i panneggi più larghi,
smisurata madre.
(«E un balordo la vide davvero,
e una donna da niente comprese più di tutti,
e pianse»).
In memoria di Fausto Fascia
La vela sul filo del mare
non scompare.
Tiene a sé la costa
quando è quasi sera,
polvere di fuochi, luci, richiami.
Il suo porto chi può dirlo?
(Rari i gabbiani
nell’ora di pochi occhi,
orme come pioggia luminosa
sul manto muto della terra).
Foto di Gaia Rocca