Questa mia prosa è apparsa nel libro Dante e il dantismo nelle Marche, a cura di Laura Melosi, Ilaria Cesaroni, Gioele Marozzi, Olschki Editore, Firenze 2022, pp. 191-195.
La nostra lingua ha una madre antichissima, la poesia. Siamo figli di questa materia creatrice, di questa parola azione che ci connette, attraverso un cordone mai spezzato, con la vibrazione originaria, Om, Verbo, che dà vita all’universo. Padre della nostra lingua è Dante. La sua eredità vive in noi soprattutto inconsapevolmente, come un’eredità genetica: gli echi e le tracce più profonde sono quelle che non riusciamo a riconoscere; sono in circolo nel nostro sangue. È con la consapevolezza di questo debito inestinguibile che porto in me, come figlia, che penso a Dante. Quando adolescente lo incontrai a scuola, iniziai subito nei miei pomeriggi una pratica di amanuense e di camminante: copiavo a penna in alcuni foglietti parti dei canti della Commedia, e poi li portavo con me in cammino nelle strade sterrate vicino a casa, ripetendo nella mente, e tra le labbra, con la voce, i suoi versi fino a che non si erano trasfusi in me. Volevo che si scrivessero nel mio corpo, per poterli ritrovare ogni volta che si facevano indispensabili. Sentivo che era fondamentale avere una riserva di suoi versi, come possibilità di salvezza. Nella sua terzina c’è un’antica forza propulsiva che chiede di metterci in cammino, sui nostri piedi, come pellegrini che hanno abbandonato ogni bene superfluo, come viandanti che praticano nel loro corpo, in ogni passo, un esercizio di conoscenza e di libertà. «Se la prima lettura non dà che un po’ di affanno e una sana spossatezza, per quelle successive munitevi d’un paio di indistruttibili scarponi svizzeri ben chiodati» scrive Mandel’štam, domandandosi «quante suole di pelle bovina, quanti sandali abbia consumato, l’Alighieri, nel corso della sua attività poetica, battendo i sentieri da capre dell’Italia».

Scritta traducendo il ritmo dei passi, la Divina Commedia, ha come protagonista un personaggio in cammino, e a sua volta produce in chi la legge, l’energia del camminare. Un cerchio perfetto che sembra dirci come mai questa poesia non si fa lettera morta, come mai non resta sulla carta, anatomizzata dai filologi, ma continua ad attraversare i secoli, generando poiein, azione creatrice, in chi la riceve. Probabilmente perché attinge a quella forza creativa che è nel nostro corpo, nel suo movimento; ai primordi della specie umana era questa la nostra prima forma di linguaggio: muoverci seguendo un ritmo. Così, nell’infanzia, impariamo a parlare proprio mentre impariamo a camminare. La possibilità di spostarci autonomamente nello spazio è strettamente connessa alla facoltà di articolare suoni dotati di significato. Diversi termini della poesia e della musica confermano questo legame profondo: piede, metro, verso, battute, e gran parte delle indicazioni di tempo e di espressione della musica: andante, lento, adagio, sostenuto…
Non è un caso che per Mandel’štam, come per Primo Levi, il viatico della prigionia, dei tempi più bui, siano stati proprio i versi della Commedia; il loro ritmo è un motore di libertà, un generatore di energia per la vita. Scritta da un esule, quest’opera ha la capacità di restituirci ciò che non può esserci tolto, ci riporta alla nostra condizione di migranti su questa terra.

Viaggiando in Italia, o facendo piccoli tragitti intorno a casa, i versi della Commedia incisi nei luoghi che li hanno ispirati, tornano come tracce vive dell’andare perenne di questo nostro padre, della vastità e umiltà dell’amore che lo ha portato a conoscere nei minimi dettagli il volto della Terra e le sue storie. Nella città dove vivo, quasi ogni giorno, passando attraverso l’Arco di Augusto, leggo il nome della via Guido del Cassero, uno dei «due miglior da Fano» a cui viene predetto nel XXVIII canto dell’Inferno una crudele morte per acqua. E mi affaccio spesso «al vento di Focara», nel Parco San Bartolo, guardando il dirupo in maggio fiorito di ginestre e il mare sottostante, increspato, sordo alle preghiere di Guido e Angiolello. Da questo piccolo borgo, volgendo lo sguardo verso le colline dell’interno, compare il profilo del castello di Gradara, con la sua storia di «bufera infernal», e di indissolubile amore che atterra Dante, come in una morte temporanea: «e caddi come corpo morto cade» (Inferno, V). Se ci dirigiamo verso l’Appennino, a un’ora di auto dalla costa, alle pendici del «gibbo che si chiama Catria» (Paradiso, XXI), troviamo il monastero di Fonte Avellana, dove probabilmente soggiornò Dante; al suo ingresso un tasso secolare apre la sua chioma dagli stessi secoli del passaggio del poeta. La lingua di Dante si è nutrita di questo paesaggio, di questo silenzio fitto di boschi. Forse è anche per queste radici che si aprono nella nostra terra, così come nel cielo che la Divina Commedia continua a non entrare nell’archeologia letteraria, ma a vivere nella nostra voce, nei nostri passi. Ha più di settecento anni l’albero Divina Commedia e ha ancora foglie verdi come nel suo primo germogliare, continua a donarci ossigeno, a proteggerci con la sua chioma, ad avvicinarci con i suoi rami le geometrie del cosmo. «Qual è […] la differenza tra un poema e un albero? Nessuna. Eppure, per chissà quali strade – di fatica, di miracolo –esiste», scrive Marina Cvetaeva. È proprio questo che accade con le grandi creazioni: si generano dal seme di una vita, di una vicenda biografica, ma ne travalicano i confini tanto che ognuno può attingere a quella forza custodita.

Ci sono versi di Dante con i quali possiamo attraversare un tratto dell’esistenza, come un deserto con una riserva d’acqua. E ci sono suoi versi con i quali viviamo, come sotto una costellazione. Quelli in cui ho riconosciuto una parte del mio cammino sono due, appartengono alla voce di Ulisse che prende parola da una fiamma crepitante nel XXVI canto dell’Inferno:
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
Sono l’epigrafe del mio primo libro, Mala kruna che si apre proprio con l’immagine di un viaggio impedito per il «cattivo tempo» o altre forze oscure, come la «madre nera» che, avvicinandosi, pronuncia la frase in croato che intitola il libro: «piccola corona di spine», può tradursi in italiano. Questo incontro avvenuto per strada, in una piccola isola della Croazia, si è inciso in me con l’incandescenza di una rivelazione, come se l’anziana vestita di nero che è poi entrata simbolicamente nei versi come «madre», avesse letto qualcosa che portavo scritto sulla fronte, un messaggio che soltanto un altro, e forse proprio un estraneo, poteva restituirmi. Quando il significato di quella frase mi ha raggiunto, da un piccolo dizionario trovato il giorno seguente in un mercatino, l’ho accolto come in una fiaba dove la strega annuncia le prove che aspettano il protagonista, le difficoltà che dovrà affrontare nel suo viaggio. Questo mio primo libro, come un romanzo di formazione in versi, attraversa una profonda ferita personale, dall’infanzia all’età che ci si aspetta di approdo e di costruzione – mentre per me, come intitola l’ultima sezione, è Un rudere la casa. Quando ho riconosciuto quei due versi dell’Inferno come la sola epigrafe che poteva aprire il libro, ho sentito che il contenuto più indicibile della mia ferita era già nella voce di Dante: aveva attraversato il suo corpo, ero salva.

In questi due versi si concentra una triplice negazione che dal presente si apre verso il futuro con il «figlio», affonda le radici nel passato attraverso il «padre» e intesse la quotidianità attraverso l’amore dovuto alla moglie. La negazione ripetendosi accumula la sua potenza creando quella tensione che permette il salto: il «folle volo» che non può essere impedito. I legami familiari sono la forza che deve contrastare Ulisse perché il suo desiderio di conoscenza possa essere libero e aperto, come lo sguardo quando si raggiunge l’«alto mare» dove non compare alcuna traccia di terra; sono la forza che continua ad agire, al di là di ogni distanza temporale e geografica, permettendo ad Ulisse di non perdersi, di non cadere preda delle sirene che annienterebbero la sua vita. Ma quei due versi estrapolati dagli altri, così come mi sono venuti incontro, possono essere la nitida descrizione di un trauma, di una ferita che si apre senza incontrare alcuna riva o approdo. Il viaggio resta impedito, rinviato. Come nelle fiabe quando, per un incanto, si esce dal tempo e si cade nel sonno. Eppure anche in questi pozzi di buio dove finiamo quando si spezzano i legami dell’amore umano, possiamo ritrovare l’antico cordone, la nostra lingua madre che ci ricongiunge con l’amore originario e, dalla possibilità di ancorarci a un ritmo, sentire riaffiorare un significato: e a un tratto siamo di nuovo in piedi, in cammino, premendo con le nostre suole la terra. A volte il viaggio inizia proprio quando ci crediamo fermi. La materia continua incessantemente a trasformarsi in noi. Serriamo la porta di casa, spegniamo il cellulare e lo schermo, torniamo nella nostra stanza, chiudiamo gli occhi: stiamo viaggiando in uno stormo che segue le correnti mutando forma, senza mai disperdersi. Questa immagine è l’epigrafe del mio libro recente, Tutti gli occhi che ho aperto, a cui fa da cornice il viaggio dei migranti sulla rotta balcanica. Gli Ulisse del nostro tempo affrontano una burocrazia imperscrutabile, confini taglienti, e una violenza ripetuta che vorrebbe respingerli indietro, che si facessero invisibili, che non fossero mai partiti. Vengono trovati allo stremo nel gelo dei boschi, morti tra le merci dei camion, per un viaggio che viene loro negato, mentre i giovani occidentali si votano sempre più a un eremitismo domestico, si fanno hikikomori, riconoscendo nella propria stanza connessa alla rete, la loro Itaca e il loro viaggio.

A prendere parola in questo libro è un soggetto plurale e aperto, che passa da una donna migrante accampata al confine tra Serbia e Croazia, agli alberi, ad antiche statuette votive, seguendo le trame di un migrare e di un trasmigrare che appartengono a ogni vivente, agli umani come alle pietre. Al centro delle sue otto sezioni c’è uno dei tanti naufragi che hanno fatto del nostro Mediterraneo un’urna d’acqua. Questa sequenza giunge come increspando appena un apparente idillio marino: abbandonando il proprio peso alla superficie del mare, facendo come si dice “il morto” – mentre a diverse leghe, altri lo sono.
il morto si può fare: braccia aperte
per chiglia la colonna, niente
nella mente, un moto
come un ricordo d’acqua.
*
tutti nella stiva premendo
per un’altra vita l’aria
come una madre manca.
Lotta di gambe e di braccia
–non svuoteranno il mare.
Richiusa in bara la barca discende.
Affondano uomini e donne con la storia del loro viaggio, delle difficoltà affrontate, delle infinite peripezie. Eroi non riconosciuti, perché il cerchio è spezzato: non c’è ritorno a casa, nella propria lingua, tra la propria gente ma, quando l’approdo avviene, una lenta e difficile assimilazione a una cultura estranea, di cui saranno ai margini.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso.
Questi versi che concludono il XXVI canto dell’Inferno li rileggo oggi come partecipando a delle esequie anonime, collettive. In questo lento procedere verso il fondo, in una sorta di ritualità scandita che accompagna qualcosa che sta avvenendo senza possibilità di ritorno, mentre inesorabile si richiude la superficie del mare, mi sembra di vedere chiudersi, allontanandosi come dietro uno schermo, la superficie della Terra. La forza generativa della poesia mi sembra concentrarsi, nell’ultimo verso del canto, in quel «noi» che è ancora possibile pronunciare, da una stanza come da una barca che affonda.
Foto di Francesco Ventura