Questa nota critica sul secondo libro di Adelelmo Ruggieri, Vieni presto domani (peQuod, 2006), è apparsa sulla rivista «La Gru» nel gennaio 2010. Insieme a La città lontana (2003) e Semprevivi (2009), questo libro è raccolto ora nel volume La città lontana. Poesie 1993-2009, a cura di Massimo Gezzi, con una nota di Andrea Bajani, Marcos y Marcos 2021.
«Ma sappiate che io non so nuotare: e il coltello dell’odio e dell’amore l’ho sepolto nel mare». Una delle poesie più intense di Massimo Ferretti, Polemica per un’epopea tascabile, si conclude con questa affermazione che può sembrare una resa disarmata nei confronti della reale, e che invece, proprio in virtù del suo carattere di inerme trasparenza, si rivela in effetti una forza. Per meglio comprendere la tenuta di questa conclusione e il suo sostanziale atto di risarcimento nei confronti di un’esistenza segnata dalla malattia e dalla marginalità, bisogna rileggere Anch’io sono il mare, un’altra fondamentale poesia di Ferretti, e soffermarsi soprattutto sul suo ultimo verso, ripreso dal titolo. Chi ammetteva la propria incapacità di conciliarsi con il reale e di incontrare gli altri e si votava a un’esistenza di solitudine e primordiale felicità, colui che dichiarava di non sapere adoperare il “coltello” delle emozioni, riesce alla fine a divenire il mare, quell’«eterna emozione» potente e inscalfibile a ogni forma di violenza.
Il secondo libro di un altro poeta marchigiano adolescente (non conta l’anagrafe ma l’accordo con la realtà che è ancora cercato o stretto di recente), Vieni presto domani (peQuod, Ancona 2006) di Adelelmo Ruggeri, può essere letto a partire dalla poesia Nel mare: «Non ho saputo mai / Nuotare / Quando l’acqua mi stringeva sul collo / Avevo paura / Delle mie braccia scarne / Chiudevo gli occhi / Mi buttavo dentro / Sedevo sul fondo / Toccavo la rena / Resistevo / Tornavo su / Respiravo». Anche per Ruggeri, come per Ferretti, l’ammissione dell’incapacità di nuotare vale come l’ammissione della propria incapacità di imporsi sulla vita e di decidere, ossia di essere adulti. Ma se Ferretti capovolgeva la propria fragilità in un’identificazione con la natura e con la sua apparentemente infinita capacità di accogliere le ferite inferte, Ruggeri viene in aiuto alla propria debolezza affidandosi a qualcosa di più grande e più forte di lui (la natura, ancora una volta). Non il trasporto dell’immedesimazione ma l’umiltà che aderisce a una misura.
Nella poesia di Ruggeri la dinamica degli opposti e in particolare la dialettica tra lo scendere e il salire, è centrale, tanto che si potrebbe dire che il suo verso è prodotto dal rilascio di una forza («Una molla teneva in alto la gabbietta / e ritrovando la sua lunghezza la molla / cantava l’animaletto»), oppure, riprendendo i versi di una delle sue “camminate campestri” (la seconda sequenza del libro), che è un movimento di risalita che dà una sorta di finitezza, di precaria durata a una bellezza fragile e sempre sul punto di svanire. Dopo avere ubbidito alla natura ed essersi affidati a lei, dopo essere entrati nella densità delle cose come per uno sprofondamento, ecco che allora avviene quel qualcosa di miracoloso e allo stesso tempo elementare che è la poesia. Ogni verso è scandito nettamente, con la stessa precisione e naturalezza dei movimenti in acqua di quel “non nuotatore”. È una scansione interiore, che non si impone sulla realtà ma che prima di tutto cerca, internamente, di definirsi; un sottile gioco di pesi e di controbilanciamenti, la ricerca di una misura che è nell’ordine stesso della natura. Scandire è per Ruggeri quasi sillabare, e come per il bambino equivale a trovare un significato, che si dà in quel momento, per la prima volta: «Siamo seduti su di un tronco / di quelli sbozzati che fanno / scivolare in acqua / le barche»: ecco che qualcosa di imprevisto è avvenuto, le barche davvero si allontanano dalla riva. Di questi piccoli prodigi è fatta la poesia di Ruggeri: deviazioni, quasi impercettibili scarti, minimi e grandi avvenimenti, tenerezze, distanze che improvvisamente si colmano, e una grazia che fa dimenticare il lavoro duro di cesello, la tradizione che ha alle spalle e potremmo quasi dire che fa dimenticare di essere scritta: sembra lì, che accade nelle cose. Il pudore e l’attenzione estrema che la muove è lo stesso di chi è consapevole che un minimo gesto può turbare un ecosistema, che un discorso si può fare anche solo con sguardi e sorrisi, e che il tempo, per essere accettato come presente e accolto come memoria ha bisogno di amore, di cure, come un “figlio piccolo”, e allora come un bimbo inizierà a parlare.
«Vieni presto domani», è l’invocazione che chiude il libro e che contiene in sé l’apertura fiduciosa, l’attesa intensa e mai angosciata, di qualcosa che si preannunciava ne La città lontana (peQuod, 2003), il libro d’esordio. Se il colore del primo libro era un bianco perlato, quello del secondo ha una gradazione in più di calore e di luce, come di un’ora della mattina che tende più verso il giorno. È il nitore mattutino e aurorale il tempo della poesia di Ruggeri: in questa soglia del giorno la realtà è innominata, come all’inizio del mondo, ogni cosa è tersa, e i colori devono comparire o sono appena apparsi, ancora privi della materialità e del peso del tempo dell’adulto, del brusio della vita lavorativa e degli impegni. E se è vero che la poesia di Ruggeri è densa di una sorta di mite saggezza, di bonaria e trasognata accettazione, e non ha reclami nei confronti del destino, è vero anche che la sottile traccia che l’attraversa è quella di una domanda circa il senso del proprio risiedere in un luogo, determinato dal solco che gli affetti scomparsi hanno lasciato e quelli presenti continuano a marcare: «io non so mai da molti anni come faccio / a sollevarmi, quando mi desto. Qui no / il tuo respiro d’allora mi orienta ancora»; «Cammina sveltissima la formica / Solo il sale la ferma // La sola ragione di esserci stato sei tu / Sei tu il sale che mi ferma qui». La stessa interrogazione è presente, sin dal titolo, nell’intenso racconto Resto lì per te («Nuovi Argomenti», V s., n. 40). Forse allora i versi hanno la stessa funzione di quel curioso rito che Ruggeri ripete più volte nel suo poetico vagabondaggio condotto nelle Marche del sud, insieme a Massimo Gezzi (Porta marina, peQuod, 2008): il conteggio di gradini o di passi per misurare qualcosa, per appropriarsi dello spazio e renderlo, letteralmente, a misura d’uomo, come se stesse preparando le fondamenta di una costruzione. Dagli inediti a cui sta lavorando, da quei versi che si sono allungati trovando un nuovo e insperato equilibrio oltre la sillabazione, verso un narrato che pulsa di un suo incessante ritmo, sembra di scorgere la casa, in quella “città lontana” da lungo tempo attesa.
Da Vieni presto domani (2006)
Nel mare Non ho saputo mai Nuotare Quando l’acqua mi stringeva sul collo Avevo paura Delle mie braccia scarne Chiudevo gli occhi Mi buttavo dentro Sedevo sul fondo Toccavo la rena Resistevo Tornavo su Respiravo Siamo seduti su di un tronco Siamo seduti su di un tronco di quelli sbozzati che fanno scivolare in acqua le barche Tu volgi lo sguardo davanti Corrono veloci le nubi nel cielo In un modo limpido e diretto scorrono le mie mani sul tuo volto Quanto pesa una formica? Quanto pesa una formica? Un grammo? Molto meno di un grammo Cammina sveltissima la formica Solo il sale la ferma La sola ragione di esserci stato sei tu Sei tu il sale che mi ferma qui Trascinare Vestiti all’alba d’arancione gli operatori ecologici vanno a Tazza d’oro a prendere il caffè Siamo in tre, mezzi morti di sonno Come in una poesia di Wilaswa Szymborska sul caso che diventa necessità una bava di vento trascina una foglia chiara dentro Li chiamavamo amori Li chiamavamo amori sono gelsi, ci dice Sono due Hanno unito le chiome a formare una volta di foglie Sotto ci passa un sentiero
Foto di Francesco Ventura