Questo dialogo tra poesia e fotografia è nato dall’incontro tra i testi di Libretto di transito (2018), e lo sguardo di Veronica Ujcich.

Viaggio senza sapere cosa mi porta a te. So che stai andando oltre i confini del foglio, dei campi coltivati. È il tuo modo di venirmi incontro: come un’acqua in cammino, diramando. Guardando dal finestrino, ti ho letto nel viso finché c’era luce.


In questo paesaggio posso chiudere gli occhi e dormire, senza il rimorso di avere interrotto il narrare del treno: come si vive, come sono disposti gli alberi e le case, che cosa stanno facendo gli uomini.
Il racconto continua silenzioso, mentre penso e inseguo altre voci. È un tragitto compiuto tante volte, che basta poco a riconoscerlo. Guardo soltanto i fiumi. Il rumore delle rotaie sul ponte mi sveglia.


Ecco il fiume che mi allarga lo sguardo, che mi attraversa la fronte. Lo aspetto ogni volta. So quando arriva dal diverso rumore che fanno le rotaie sul ponte. Accanto al sedile una piccola valigia. L’ho preparata sapendo di andare. Sospendendo un attimo i gesti che piegavano e riponevano, ho deglutito allontanando il sapore. Così fanno gli adulti, nascondono per proseguire.

Qui ciò che cade indurisce nello spazio assegnato dal caso o dal destino. Cadendo si abbandona, perde ogni appartenenza. Inizia a crescere radici, sottili come capelli. Ma oggi il tempo è entrato, risuonando sui vetri. Le pareti si sono fatte sottili, come di membrana. Ogni stanza entrava nell’altra, sovrapposta in un gioco di dimensioni perfette. Ne restava una sola, profonda di tutte le altre. Vi entrava anche il giardino, con gli alberi, la strada di auto lente. Ti stava facendo questo, pazientemente, la pioggia. Sciogliendo una sillaba fino all’inizio dell’articolazione di un suono. Portandoti appena dopo il silenzio. In quella durata potevano fare ritorno, trovare luogo le cose.

A volte un breve annuncio ricorda la linea gialla, a volte è soltanto un rumore che si avvicina. La fenditura che si apre dev’essere arginata subito con le mani che si aggrappano a qualcosa, gli occhi chiusi. Ci si stringe alla panca, agli oggetti che si hanno con sé, fino a che il treno trascorre al nostro fianco. Con il tremore di qualcosa di enorme, per cui dobbiamo ancora aspettare.