copertina Tomaso Tiddia

Tomaso Tiddia, “L’azzurro e il rosso cielo”

Alcune poesie di Tomaso Tiddia (Cagliari, 1965) da L’azzurro e il rosso cielo, Transeuropa, 2023.

Piove una pioggia di morti
e di sguardi bagna ogni goccia
e gorghi e remoti sogni i ricordi. 
Ci muoviamo così, lenti
e attenti sugli stagni come
sulla tela ragni, poggiamo
le suole leggere sugli specchi
di nuvole nere, sono i nostri occhi 
vecchie gore della notte, gronde 
dove il tempo passa a frotte,
dei suoi canali carnali sponde. 


                       


Noi non veniamo dal silenzio,
esiste un canto dello spazio
anche se cauto è il suo atteggiamento. 
Noi non andiamo verso il silenzio,
le farfalle sui radi fili del prato 
seguono impercettibili suoni,
le rondini sui tralicci si posano
come le note sulla partitura.
I nostri piedi sono già la scrittura
del tempo, i nostri piedi le nostre 
mani sfuggono l’architettura 
d’interno e d’esterno.
A volte sento, l’ho sentito spesso 
dall’infanzia, d’essere la mia carne 
capovolta sul mondo,
come se la vena e il nervo
fossero fuori di me. 

Che sono dentro se stesso 
me stesso, fuori di se stesso. 





A Sant’Elia in bicicletta 
scortato da libellule,
come un papa un ministro 
da guardie in motocicletta. 





Siamo la metafora 
che si può spezzare, 

siamo pane. 

Siamo la sua stessa metafora 
che si può moltiplicare. 





Il giorno in cui per te il mondo
tacque e tutto in cuore ti cadde
il muto rinfrangersi del tempo.
Quel giorno un figlio da padre nacque. 





Fuori di te l’abisso. 
Una balaustra lo tiene 
e non so l’argine
a quale origine di cielo. 

Ogni pietra lo nasconde, 
ogni pietra che resta 
delle monche colonne 
del tempio della vita. 

Ogni pietra, pugno 
duro di poeta. 

Soglia che pensa il futuro. 
Passo disciolto nel muro 
umano delle coscienze. 





Organetto del mare,
quale cieco mendicante
gira la manovella, mano fredda 
e fedele cane al fianco,
quante monete ritornella
dal suo giro stanco
alle rive del mondo? 





                                                               a Lello Defraia 

Piazza Repubblica 

Sulla piazza veglia
un verde trombettiere,
aspetta il pomeriggio
e s’intrattiene a vecchi matti.
Il sole si obliqua sul frontespizio 
del vecchio palazzo fascista
e indora le lettere della ivstitia, 
dura un attimo appena, se ne va 
tra due carabinieri. 

È una grigia costruzione
la giurisprudenza nel giardino 
della repubblica della terra. 





Un cielo rumina i suoi colori,
il respiro della terra, i suoi polmoni 
addormentati nella serica luce
e illumina i lampioni sugli stagni 
dove i morti da nuvole altane 
hanno gettato gli occhi
come i bambini le monetine
nelle fontane e ora risplendono
nel vino solare, sulle soglie 
minerali, dove vaglio i volti
animali che si specchiano
sulle chiazze dei canali. 

Sogna qui la mia città. 
Qui torna la sua gente 
rossa dalla Camargue, 
porta il canto provenzale. 





Finita la partita
tutta la polvere si era alzata
su di noi e il sudore la serbava
sui nostri corpi, aurea cornice.
Vi lasciavo bere per primi, compagni, 
perché ero la sete di tutti voi,
ero la vostra illusione che l’acqua 
scioglieva sulle guance arrossate.
Oh sorsate di allora, dentro me, 
rapide come le occhiate
senza vertigine degli animali. 



Foto di Rossana Abis

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