Da The Root of Nothing / La radice del niente, in uscita nella primavera del 2021 per Edity (Palermo), edizione bilingue (inglese/italiano), traduzione dell’autore e di Chiara Bernini. Il libro, inedito negli Usa, è l’esordio poetico di Todd Portnowitz.
Aquarium Living When I set my brain in a tank and dropped it fish food, a little treasure chest grew on my frontal lobe, and a pet black lava rock on my parietal. This pleased my neurons, which swam like gobies between the grooves, and for months I kept them happy in this way. Soon my mind was a vibrant nano reef, with cabbage leather and polyp corrals, lit from above by an automated LED, and thoughts kicked up from the substrate with alarming rapidity, wriggling into my temporal lobe and taking cover. And I couldn’t say, precisely, when it was the ecosystem reached its vital peak or what, precisely, caused the stark reversal— too much, too little food? too small a tank?— but reverse it did, the course, and in a day my darting firefish lay one full third a fathom on the filter intake, and nothing I could do or dial down would make them flash again, my day-glo fishies, my tear drops in the pond, and the cabbage died and the polyps drooped and the treasure paled, and I pulled my sopping brain from the murky water and held it there aloft— you see it, now?— as Perseus upheld Medusa’s head, though prideless, and at a loss. Vita d’acquario Quando misi il mio cervello in una vasca e gettai del mangime per pesci crebbe un piccolo scrigno del tesoro sul mio lobo frontale e una bella roccia di lava su quello parietale. Questo piacque ai miei neuroni che nuotavano come gobidi in mezzo ai solchi, e per mesi li tenni felici in questo modo. Presto la mia mente divenne un vivace Nano Reef con coralli di cuoio e colonie di polipi illuminati da sopra da un LED automatico, e i pensieri saltavano dal sostrato con allarmante efficienza, contorcendosi dentro il mio lobo temporale, cercando riparo. E non saprei dire quando, precisamente, l’ecosistema raggiunse il suo apice vitale o cosa, precisamente, portò alla dura inversione - troppo cibo, troppo poco? troppo piccola la vasca? - ma s’invertì, il flusso, e nel giro di un giorno i miei agili ghiozzi giacevano immobili sul fondo sopra il filtro interno, e nessuno sforzo o riaggiustamento da parte mia li avrebbe fatti brillare di nuovo i miei pesciolini fosforescenti le mie lacrime nello stagno, e morirono i coralli e appassirono i polipi e impallidì il tesoro e io strappai dall’acqua opaca il mio cervello zuppo e lo tenni lì, sospeso - lo vedi, ora? - come tenne Perseo la testa di Medusa, ma senza orgoglio e senza idee. * The View from My Parked Car Queens, NY A prune against a deep grape sky. A banana, slightly rotting, on a lemon plate. Tangerines in a bowl of tangelos. A beefsteak tomato smashed against a brick wall covered in graffiti, the juice running down the large white X of a massive tic-tac-toe board depicting a cat’s game, since, after a certain age, that’s the only result. There’s no more winning, much less losing, just two intellects locking horns, like Sun Tzu’s The Art of War stacked atop Mastering the Art of French Cooking on a sous chef’s bedside table. The lack of progress is alarming. We’re getting nowhere but we can’t stop feeding coins to the slot machine in the train station bar, like old Italian men in newsboy caps, jittering in place from caffeine, while everyone around us is in motion. Or else it’s a heap of mashed potatoes on a sweet potato pie, a jaguar napping on a leopard-print rug in a Hollywood mansion. There’s no more winning, and that’s ok. But couldn’t they leave us losing? Couldn’t they leave us sinking our heads into our hands and weeping with defeat? I miss those days. La vista dalla mia macchina parcheggiata Queens, NY Una prugna secca su un cielo color vinaccia. Una banana, leggermente marcia, su un piatto giallo limone. Dei mandarini in una scodella di clementine. Un pomodoro cuore di bue schiacciato contro un muro di mattoni coperto di graffiti, il succo casca sopra una grande X bianca che fa parte di un’enorme griglia di tris che rappresenta una partita patta, visto che, da un certo anno in poi, è l’unico risultato. Non esiste più vincere, tantomeno perdere, giusto due intelletti con le corna incrociate come l’Arte della guerra di Sun Tzu impilato sopra Il cucchiaio d’argento sul comodino di un aiuto cuoco. L’assenza di progresso è allarmante. Non stiamo andando da nessuna parte ma continuiamo comunque a dare monetine alle slot al bar della stazione come i vecchi italiani col basco seduti e tremanti per la caffeina, mentre tutti gli altri intorno a noi sono in movimento. Oppure è un mucchio di purée sopra una crostata, un giaguaro che dorme su un tappeto leopardato dentro una villa hollywoodiana. Non esiste più vincere, e quello va bene. Ma non ci potrebbero lasciare perdere? Non ci potrebbero lasciare tenere la testa fra le mani e piangere sconfitti? Mi mancano quei giorni. * Fountain of the Caryatids Piazza dei Quiriti, Rome I’ve never held a pinecone over my head like a fruit basket, but I know what they’re about— a sort of dandruff, grenades tucked in a green jacket. I’ve never had a pinecone fall on my head and I’m grateful for that. I think I’ve been shit on by a bird only once. The friend of an ex-girlfriend’s dad had a dead fish fall on his head during his backswing on the fairway. An osprey, idiot. The pinecone you don’t think of as a monument, as something a naked woman would hold up with one hand while ringing her ankle with the other. A pine needle even less so. As a kid I played pine needle wishbone with friends, where you each pull an end and whoever gets the booger is the loser. Truth is, there’s all these things that drop from the sky and if they don’t strike us dead or dumb we maybe pick them up and they fill our minutes, especially as children when we’re closer to the ground and care less to look up where they fell from. Fontana delle Cariatidi Piazza dei Quiriti, Roma Non ho mai tenuto una pigna sopra la testa come un cesto di frutta, ma di pigne ci capisco abbastanza – una specie di forfora, granate infilate in una giacca verde. Non mi è mai caduta in testa una pigna, e di questo sono grato. Mi ha cagato un uccello soltanto una volta, mi sa. All’amico del padre di una ex è caduto in testa un pesce durante lo swing sul campo da golf. Uno falco pescatore, cretino. La pigna di solito non viene capita come monumento, come qualcosa che una donna nuda terrebbe in alto con una mano, mentre con l’altra stringe la caviglia. L’ago di pino ancora di meno. Da ragazzino giocavo a “osso della fortuna” con gli amici, in cui ciascuno tira un lato dell’ago del pino e chi finisce con la “caccola” è lo sfigato. Fatto sta, sono tante le cose che cadono dal cielo e se colpendoci non ci lasciano morti o scemi, magari le prendiamo in mano e ci divertiamo un po’, specialmente quando siamo ragazzini e siamo più vicini alla terra e ci frega meno di guardare in su, da dove sono cadute.