Questa prosa è uscita, con alcune varianti, nella rivista «Semicerchio», XLVIII-XLIX, vol. 1-2, 2013, Poesia del lavoro.
Un giorno, un minimo gesto, e siamo da capo. Non esistono argini o dighe. Solo questa rete sottilissima che cade dall’alto senza fine e si fa scorgere nel sole, in un raggio che rimane in certi momenti sospeso nella stanza. Qualcosa lassù rovina incessantemente. Particelle discendono su di noi, invisibili piovono fitte, fino a consistere in un velo leggero, e grigie piume che si raccolgono agli angoli delle stanze. Il tempo è un animale che non ho mai visto. Non so che taglia abbia, quali abitudini, se sia addomesticabile. Ma si aggira nella vostra casa addensando le sue tracce nei luoghi più riposti. Mi piacerebbe incontrarlo, ma so che sarà lui a tagliarmi la strada, fissandomi negli occhi con la profondità di un bosco. Ogni mattina, nella vostra sala deserta, un malinconico filo è abbandonato dal suo creatore. Fino a che arriva il mio giorno di turno. E posso rimanere a raccogliere questa finissima cenere illuminata che scende a seppellirci. Che ci chiuderà gli occhi, più dolcemente di quella esplosa da un vulcano, ma nello stesso irrimediabile modo. Continuiamo a compiere ciò che è dovuto, a versarci dalla prima all’ultima ora nei gesti, finché non iniziamo ad avvertire qualcosa e lentamente ci invade la paura. Chi cerca di raggiungere la riva, chi si inoltra nel verde, chi si ripara al chiuso delle pareti o fino all’ultimo continua a trascinarsi. A ogni modo tutti saremo ricoperti. L’ultimo pensiero è contenuto nella posizione dello scheletro. È per questo che mi fermo a lungo, il giovedì mattina, sotto il raggio. Voglio che venga prima per me. Vorrei guardare la trama del lenzuolo e respirare in quello spazio protetto, nascosta dai piedi alla nuca. Come da bambina, quando per lunghi momenti mi inabissavo per riemergere a un tratto. E poi va bene, resterò mezz’ora in più la sera, per finire quello che dovevo.
Questa polvere mi fa bene, mi ricopre di una strana eternità. Come se fossi già dalla sua parte. Così posso spostare le nuvole sul pavimento, o lasciare addensare il grigio che vi minaccia. Mentre voi correte a strofinarvi l’uno contro l’altro per salvarvi, per togliervi di dosso la polvere. Ma di che cosa siete fatti per lasciare le cose in questo modo. Precipitate da un dirupo a capo del letto, l’una avvinghiata all’altra, le tante salme che vi portate addosso, così sporti sul vuoto da attraversare in pochi minuti stagioni e identità. Neanche l’amore o qualcosa che gli rassomiglia può ripulire la vostra lordura. Ogni volta vi alzate ancora più sporchi, come se strofinandovi aveste accolto il fango dell’altro. Per questo si innalza lento e continuo il coro della centrifuga, come di acqua contro macigni, a renderli sassi arresi nel tempo.
Non affidatemi più compiti inutili come ripiegarvi le maglie. Una veste rovesciata va indossata com’è: ecco una grande fortuna, un cambiamento vicino. E il giorno dopo vedrete che senza pensarci ritorna la tinta consueta. Quanti sforzi per cambiare senza successo. Basterebbe una mattina dimenticarsi. Allacciare una scarpa alla gamba del letto. O come capita a volte quando mi inginocchio a raccogliere qualcosa, rimanere prostrati di fronte alla potenza degli armadi.
Foto di Alessandra Calò