Spirano basse le nebbie tra i lecci e il giorno rischiara appena come un fantasma la foresta. È un’ora di alba e di tregua. Proverò a curarti in questa dissolvenza, a ripiegare nei minuti le garze umide sulla resina disciolta, a indovinare l’auspicio dai rami nel volo corto del beccafico. Non si alzeranno gli abeti dopo l’urto della frana. Ogni radice scoperta ha il suo tronco spezzato, ogni crepa il suo ordine il suo estraneo motivo. Sbrighiamoci prima che affiori la scorza del torrente, che in lei trapassi anche l’ultima grinza di luce e fredda nella spuma corra la cascata. Anche il ruscello può essere sentiero nell’intrico della boscaglia. Tu forse potevi provare a seguirlo arrivare alla polla nella terra. Sapevi assecondare gli sbalzi del fiume, tenere a bada la natura cedevole dell’acqua. Ho seguito per mesi la vita silenziosa degli alberi, la parabola del ramo, la foglia in quest’aria di pace e dissonante nei viali la maestà delle forme più semplici. Arrivano dall’Africa le anatre in ritardo sulla riva del lago, sul ciglio delle sue fioriture. Stamattina passando il paese hanno violato discrete mentre noi dormivamo la segretezza dei tigli. Perdute in un sogno di luce ti si fanno vicine quelle piante assorte, intente a covare un respiro un incontro fortuito nel mondo. Lo sai sono loro ad averti quando passi incurante tra le dune di fiori e la montagna rifulge, le betulle guardano altrove. Matura sulla buccia della mela la sua cancrena, il tarlo che dura oltre l’albero covando in noi chissà quale terreno. Dovremo – mi dicevi – imparare a sciogliere i legami, alternare di generazione in generazione gli affetti, mancare al tempo come le piante imitare per gioco la danza degli aironi. Ecco l’erica immobile, il prato che senza armi né scorza ti tiene se cedi alle mire della pioggia battente alla forza del cedro elegante e gli aghi ti coprono, le radici si addentrano. In campagna su di te inosservati crescono i gelsi. Foto di Matteo Meloni