Otto poesie di Lorenzo Pataro da Amuleti, Prefazione di Elio Pecora, Ensemble 2022
Guardo un falco venire alle ringhiere a raschiare con la ruggine le ali (dalle piume si sgretola l’amianto delle case) l’oro si mescola alla creta il mosaico rivela un salmo ancora ignoto la dimora spoglia dei tuoi avi mette a nudo i martiri murati e la polvere si ostina a entrare nella luce. La testa sul cuscino, un sasso nello stagno a sprofondare, nella stanza si propagano i pensieri come cerchi e tu non senti dal tuo regno bianco ovatta la ferita che mi buca la corteccia. Se dico casa, non avrai riparo. Se dico pane. Se dico grano tu lieviti e ti spalanchi nel mio nome. Siamo nati. “Alberi case colli per l’inganno consueto”. Se dico àncora, mi abissi. Siamo nati. Gettati in un nome verso un nome. Se dico tetto mi scoperchi, se dico cielo mi nevichi e mi scardini dal corpo. Con la grazia dei vulcani. In quello stare delle cose illuminate per sé stesse. Se dico sillaba, fonemi si sparpagliano e poi il gelo li ricuce, li spoglia e fa nuda la parola, esposta e divina come un barbaro in esilio. Adesso. Se lo dico, già è passato. Siamo nati. Gettati in un nome verso un nome. Monili scheggiati, riparati con l’oro. L’odore buono delle cose quando iniziano. Le tue sillabe propizie, mentre tutti dormono. In cucina, sottovoce. Rituali, le mani sulla schiena. La tua ombra sulle scale. Il sale sparso per la casa, le tue perle la miniera di ciò che abbiamo perso. Stella di grafite, ti ho gettato tra le onde, lieve combustione. Luce primitiva, fammi iena fammi aratro, braccato nella nebbia. Luce-grembo. Ti ho gettato in tutti i pori nascita ulteriore, dono dei relitti, fatica del restauro, sapiente oro. Il ramo-lucertola spezzato, l’incavo del riccio di castagna ad accogliere il respiro dei dispersi nella luce, le mani-radici nella terra, i palmi-catini colmi d’acqua, la fronte che è un viale in attesa delle foglie. Quanti corpi attraversiamo, in quante forme migriamo braccati come lupi nella notte. I morti accatastati come legna nelle tombe, polvere di semina, le ossa a brillare accese dai lumini, i falchi-guardiani a sorvegliare il loro sonno primordiale. I morti sono i tarli della neve. Sentire come allora. Bambini-parco-giochi. Sentire la vita come allora e in un punto preciso, dentro al petto. Chiaro nitido pungente. Accorgersi del noto. Lo spazio tra le cose, tra il piede che si alza nella corsa e il piede-ancora che tiene. Polvere, il radioso nello spazio tra le dita. Sentire un freddo che è lontano, acuminato. Universo che semina nel petto qualcosa di antico e benedetto. In cerchio si osserva la ferita al ginocchio del bambino, sangue e pelle, il suo frantumo. Sentire come allora. Farsi tana e nascondersi era un modo per lasciare il mondo vuoto, farsi mondo nel mondo e nascondersi nel vuoto lasciato dalle cose. Qualcuno ci cercava. E noi acquattati come i morti. In attesa. Trattenendo il respiro come loro. Foto di Francesco Ventura