Un estratto da Ciò che il mondo separa di Francesca Matteoni, uscito a giugno per Marcos y Marcos, in attesa di incontrarla a Pordenonelegge, dove presenteremo insieme i nostri ultimi libri.
(il tamburo) Luce e oscurità sono stagioni scolpiscono correnti sulle strade. Per mesi il tempo è una casa interiore, come spengere una lampada e stare soli – le cose non ancora composte, i fuochi sfilacciati. I tramonti si sfaldano in persone antiche, arti. Tutto è vicino – conosci un posto segreto dove i pesci si fermano nel ghiaccio – una creatura nell’altra del colore del pelo, delle membrane – il grasso della carne succhiato da sotto il mare. Le dita rosse e viola. Dai mercati del porto, i cibi cotti nel burro, i tè nei bollitori sale il mormorio del fumo, il conforto privato dei pensieri. Dalle aringhe essiccate, il naso storto del salmone, il feltro rammendato sulle orecchie. Si cammina di lago in lago sugli alberi riflessi. Le fessure nel terreno sono chiuse, le tane dentro cumuli di zolle, la testa nera della lontra salta nel fiume. Il prossimo varco è il gelo. Fisso. Forato da un tendine di renna, un amo. Gli uccelli sono anime guizzate dalla gola come anguille. Finlandia significa la fine – i corpi assorbiti nei sonagli le chiese tratteggiate sui tamburi. Cosa resiste al fondo? L’aria? L’acqua? Aria e acqua in un tondo di pelle, la bacchetta d’osso? Questo è il suono – i paesaggi sottratti dagli zoccoli, il martellare anonimo dell’onda. Puoi lasciare i tuoi bagagli sul margine del bosco l’automobile aperta al muso dei ghiottoni, scomparire per giorni, poi tornare senza sillabe coi sassi nelle suole. Imparare un ritmo, non fare rumore. (l’alce) Per rami fitti e bianco d'erioforo specchiato nella polla come un occhio – dove siamo, stiamo fermi, da me a te si riduce il mondo. Si graffiano le gambe a camminare a strisce di febbre tra le spine i nomadi si tengono nel gruppo i vecchi e i ragazzini stretti al centro. Chi muore lo si deve seppellire dove si è, nel freddo, senza tempo le sue scapole, rotule raschiate a renne ossificate nel pantano. Con i lacci ruvidi di scarpe si espongono le vene sui polpacci si stringono in più punti le placente perché la vita scenda come un bozzolo di muco e di colla di farfalla. Stanno timidi sul bordo i nostri morti dove cala il fossato, poi si increspa. Sono grumi di bosco sulle braccia, noi affioriamo in lembi di tepore la fanghiglia pulsante sulla stoffa. La pelle suturata è una ghirlanda. Le strade ci dimenticano sgusciate dalle labbra tornano nel rammendo di parole creature consunte, poi riaccese. Nascoste dentro i massi le monete. I segni sul diario avviluppati come capelli, filo di radice – sono i legami, lo sforzo di tenere. Qui è quando suoni l'armonica nel bungalow acquatico d'azzurro guardo la gente ignota in fotografia. E' questo il vivere quieto, il conforto – la culla disumana dei silenzi? Sugli zigomi ci buca la somiglianza, i rametti impigliati nel cappuccio. Siamo fuori, sull'asfalto, il libro tra le dita le teste reclinate – l'autobus più vuoto. Poi d’improvviso si affievolisce il corpo ecchimosi d’insetti e di crateri – l’autista rallenta, il vetro è un plasma sulle mani corpuscoli d’ossigeno, luce. Ci corre accanto l’alce – collina, quercia diramata. Il cuore nucleare sfiorisce sopra il cranio.

Orso polare (cose nascoste dietro le porte) Una porta non è un luogo, ma quando l’attraversi tutto cambia per sempre. Non è come guardare alla finestra, lasciare le serrande sollevate l’aria da fuori che diventa acqua come un corpo nello sforzo di entrare. Non c’era niente, quella notte, da vedere. Nessuna stella, lampione, nessuna luce dalle case vicine. Dalle montagne brune dell’autunno soffiava il buio, l’onda di un lamento. Il mondo non è reale. Né mai lo sono i volti dietro le parole. Le forme che tu credi di scorgere, toccare, si ritraggono in una vita interiore, le bocche color ruggine trafitte di vento. Ma qui nel chiuso di questa cucina è come quando il sogno mi trattiene un nucleo d’universo senza storia e cerco senza pace oggetti amati. Gira la casa come nella fiaba si arresta sulla scia del settentrione. L’odore ruota obliquo nella testa prende la trama dei tessuti, le mani, da dietro la vetrata. Ci sono molti modi di mentire ma solo uno di essere sinceri. Da così lontano vieni da oltre i ghiacci, la terra dei muschi – la pelliccia ti aderisce alle ossa umida, piena di polvere, croste, ma il tuo sembiante è nitido, compatto – ogni rumore un gesto d’estinzione una lesione accesa sopra il cuore. Bussi nella mia stanza con le unghie. Sono io stessa porta e poi terrore – lo scarto dell’ombra sopra le pareti. In piedi sulle zampe l’animale fatto di nube spessa, fiato, denti. Sei tu la forma dell’amore? Il re del nord, del tempo immateriale l’orso polare altissimo, s’inchina. Dall’altra parte Il luogo è lo stesso dei sogni, ma sei sveglia e ti vedi le mani. Chi incontri ha gli occhi strani: vede il dentro dei corpi alberi della preistoria. Hai sete eppure non bere. Arriva al pozzo delle radici taci ogni nome che sale. È tutto vero quello che credi – ti salvi se cadi. La collina Ci spezziamo questo è un cerchio impresso da un sasso si allarga svanendo – mi getti addosso la tua scorza divento uno scoglio divento una collina nell’acqua nella collina vive un popolo invisibile – schiene cave – ti paralizzano nel sonno – si abbassano – corpo di tenebra sul corpo – si allacciano una vena di latte – uno strascico del tuo vestito l’oceano è lo sfiatatoio della notte – schiarisce – esita ti componi in un’isola sotto i miei fianchi Una casa a pezzi. L’interruzione degli affetti. Cercare comunque di bere alla sorgente. Alzare la testa dal sogno di affogare. Annuire. Non capire. Ricacciare la premonizione. Volersi tenere la vita. Dire: ci sono. Un po’ più forte. Sento male da ogni parte. Vento. Foglie sollevano le nostre teste, gli occhi si aprono dall’acqua in cui ti cerco. Acqua alta sul mondo dato. Là sotto una città, uno spazio domestico passi che si arrestano sul suolo. Scavano invece di avanzare vogliono sorgere invece di partire. Ci intrecciamo finché nulla è diviso. Un ramo sotto le spine, la terra che cede, un uomo che varca un passaggio una donna che stringe il laccio della sua decisione. Occorre ad alcuni una morte o una vita racchiusa, distante una soglia che traccia l’impronta sul ventre, e sulle braccia una mappa di spavento e dolore. Occorre lasciarsi ingannare. Sorgiamo come popoli antichi cancellati nella pelle vegetale. Come simboli antichi ci dipinsero nell’ocra, sulla pietra, con il sangue della caccia o dell’amore. Ci chiamarono demoni dal volto piumato e con le lacrime ci trassero giù fino al vuoto. Ci dettero nomi che non erano i nostri. Ci appesero nei sotterranei. Ci persero, ci dissero di camminare. La vergogna tagliava il fiato. Ho denti, labbra, seni. Hai un tremito nervoso nella carne. Frutti selvatici. Ciò che dall’osso nasce è libero di andare si caricano le lingue sottratte alle parole. L’aria ci flette gli inguini e la voce. Mi ricordo di te. Scrivo per te un segreto. C’era donato un tempo. Scorreva sulla riva del tuo corpo nella foce. Foto di Veronica Tinnirello