Intervista di Sofia Fiorini per la sua tesi di laurea magistrale in Sociolinguistica, La lingua della poesia italiana contemporanea. Uno studio sperimentale tra lingua e linguaggio, relatrice prof.ssa Enkelejda Shkreli, Università di Bologna, 2019.
1.Esiste oggi una specificità della lingua poetica rispetto agli altri usi linguistici dell’italiano?
Sì. In poesia la lingua è al suo stato nascente, in quel movimento di metamorfosi che ha in sé molteplici possibilità di significato. La sua forma è simile a una custodia: è capace di proteggere un frammento di esperienza e insieme di mantenere un’apertura alla vita. Per quanto lavorata con l’attenzione più estrema, non raggiunge mai quella perfezione che è chiusura. Il suo compimento accade ogni volta che il lettore, con la forza della sua attenzione, incontra questa materia creatrice e la accoglie, plasmandola nella sua esperienza. È un piccolo miracolo che bisogna festeggiare, questa possibilità di ricongiungimento che avviene attraverso la lingua, la sua antica materia che ci precede, che riceviamo in dono dai nostri antenati, e che diventerebbe sorda e inerte, morirebbe, se non fosse illuminata nel tepore di un incontro. Proprio come una pasta madre.
2. Ritieni che la poesia debba mantenere un certo scarto linguistico rispetto alla lingua comune? Perché?
Nient’affatto. Non credo ci siano leggi in poesia, se non per essere tradite e superate. L’unica legge è interiore: un legame che non può venire meno tra la parola e ciò che si muove in noi, attraverso di noi, e che è, sostanzialmente, un ritmo, una possibilità di ricongiungerci a quell’«amor che move il sole e l’altre stelle». La poesia è la lingua di questo amore originario che ci regge sulla terra, che tiene insieme ogni atomo del reale. Non c’è forma che basti a contenerlo, ogni parola è insufficiente, travalicata da questa energia creatrice. Il poeta ha un cuore in cui questo amore è deflagrato, lasciando schegge incandescenti. Parla questa lingua con chiunque, a ogni cosa, come in un amore spalancato. In ogni incontro cerca di ristabilire quella relazione primaria, all’interno della quale siamo trasformati da qualcosa di più grande.
3. Pensi che il rivolgersi a un tu in poesia renda i testi linguisticamente più aderenti al parlato? Credi che un interlocutore diretto li doti di una maggiore forza comunicativa?
È una domanda che non mi pongo mai. Forse perché non è possibile scrivere senza un tu. La presenza dell’altro è dentro la materia stessa della lingua. È una percezione chiara che si ha quando si è immersi in questo lavoro di ascolto e di traduzione attraverso le parole. Ogni volta che la parola poetica ci raggiunge, riceviamo un messaggio che è diretto a noi e oltre noi. Spesso ci è restituito nel tempo, attraverso l’ascolto degli altri che fa affiorare strati di significato di cui eravamo inconsapevoli; nel momento in cui lo riconosciamo, siamo già trasformati: in grado di vedere nell’oscuro che portavamo. La scrittura è la mia camera oscura: la mia possibilità di vedere dentro l’esistenza.
4. Giovanna Rosadini, nell’introduzione a Nuovi poeti italiani 6, afferma che “la scrittura poetica femminile […] ha, sempre, una temperatura maggiore di quella maschile”. Sei d’accordo? E cosa si intende qui, secondo te, per temperatura?
Rispondo riportando un passo di un breve intervento che avevo scritto, per una rivista, in occasione dell’uscita dell’antologia.
Poesia femminile, poesia dialettale, poesia civile, poeti marchigiani, emiliano-romagnoli, poeti degli anni Settanta, degli anni Ottanta, giovani poeti. Quante volte titoli di antologie, articoli, interventi, hanno accolto definizioni come queste che più che categorie critiche sono cerchi tracciati sulla sabbia per delimitare uno spazio di attenzione, per guidare il nostro sguardo nelle costellazioni della poesia. Se poi ci fermiamo a chiederci che cosa significhino queste definizioni ci ritroviamo sempre al punto di partenza: un poeta non ha sesso, non ha età anagrafica, non ha una lingua definibile a priori, né temi o oggetti di cui debba trattare. È forse tanto più poeta quanto riesce a entrare in se stesso come attraverso una porta, oltrepassando il suo io per andare incontro all’altro. Eppure è innegabile che le esperienze che vengono a costituire la sua esistenza, segnano la sua voce. «C’è sempre un punto, dietro la testa, della grandezza di uno scellino, che non si riesce mai a vedere da soli. E una delle funzioni positive che un sesso può svolgere a favore dell’altro è descrivere quella chiazza, della grandezza di uno scellino, che sta dietro la testa» scrive Virginia Woolf nel ’28 in Una stanza tutta per sé. Per quanto il progresso civile possa avere fatto sì che, nelle società più evolute, quel punto invisibile si assottigliasse sempre più, permangono ancora, nella società italiana, opacità verso lo specifico della situazione femminile (basta pensare a quanto poco venga tutt’ora tutelata la maternità nel mondo del lavoro, e alle dinamiche maschili, più o meno implicitamente sottese a incarichi e luoghi “di potere”). E, a ogni modo, anche nella migliore delle società possibili, quel punto cieco dietro la nuca resterà, riducendosi magari a quelle uniche esperienze che, per bios, non appartengono al corpo dell’uomo.
Ci sono antologie che tendono a tracciare un canone, a traghettare le voci più originali e definite oltre le soglie del proprio tempo. Così è stato ad esempio con Poeti italiani del Novecento di Pier Vincenzo Mengaldo. Altre nascono dall’occasione di riunire un certo numero di autori che, per un qualche motivo, possono trovarsi l’uno accanto all’altro, ognuno con la propria identità, come coinquilini di uno stesso condominio. È questo il caso di Nuovi poeti italiani 6, di recente uscito per Einaudi, a cura di Giovanna Rosadini. Il valore di questo lavoro sarà da valutare non tanto in base alle intenzioni, che sono semplicemente quelle di mettere in luce alcuni autori, ma in base alla consistenza e alla forza delle voci accolte. Il suo merito potrà essere quello di avere riconosciuto e indicato ai lettori alcune voci che prima si confondevano nel frastuono di fondo della poesia contemporanea. L’Einaudi, con la sua “collana bianca” di poesia, ha ancora il prestigio e l’autorevolezza per operare questa differenza, per aprire questo spazio di ascolto, nel proliferare della rete e nel sovrapporsi delle pubblicazioni.
5. C’è un uso diverso del linguaggio da parte delle poetesse donne? Ci sono aree semantiche che hanno più forza nelle opere scritte da donne?
Chi scrive, nel momento in cui entra in contatto con la propria identità femminile, riceve una grande eredità di silenzio: secoli in cui esistenze si sono susseguite senza potere tramandare la propria esperienza se non attraverso l’oralità e il proprio corpo, con il suo deposito di vissuto e di emozioni. Scrivendo, oggi, non posso non sentire questa catena di silenzio che attraversa il mio corpo e lo spezza, per accogliere l’eco di quelle parole che si sono disciolte nel sangue, o sono state soppresse.
Ci sono fondamentali aree dell’esperienza che non sono ancora state attraversate dalla parola scritta, se non per brevi e sporadiche incursioni. La forza della scrittura è data dalla verità e intensità dell’esperienza che la precede. Così, in tutte quelle aree dell’esistenza che per bios sono escluse al maschile, la voce femminile può risuonare con più verità e forza.
6. Che cosa, a livello linguistico, ti infastidisce trovare in poesia? Ci sono espedienti linguistici o aree semantiche che personalmente ti creano una distanza?
Tutto ciò che è decorativo: ciò che nasce dalla letteratura e alla letteratura riconduce, come in un proliferare stagnante. Tutto ciò che è voce di un ego che si riversa all’esterno senza cercare il volto dell’altro. (Ciò che parla di sé senza avere prima compiuto un sacrificio del proprio sé). Tutto ciò che nella scrittura ha completamente perso la voce, il corpo: si è assuefatto alla pagina, non lotta per tornare all’origine, in quel tentativo rituale di affrontare quello che spaventa, che non è conosciuto, governarlo e ricondurlo all’armonia, attraverso il ritmo, e la sua forza che ricongiunge. (Consiglio a proposito la lettura del purtroppo irreperibile La preistoria acustica della poesia di Brunella Antomarini).
7. In Storia dell’italiano scritto (Carocci, 2014), Paolo Zublena afferma che al cuore della poesia recente starebbe una “violazione dei principi testuali di identificabilità, […] non fornendo al lettore un frame di inquadramento, o presentandogliene uno del tutto opaco, oppure ancora complicandolo fino all’indecidibilità.” A questo proposito, credi che un certo tasso di oscurità sia inevitabile e necessario in poesia?
Credo, con Agamben, che sapere percepire l’oscurità del presente sia l’unico modo per essere davvero contemporanei. Perché è proprio accogliendo quel buio libero dalle luci dell’attualità e prossimo all’origine, che è possibile appartenere al proprio tempo, trasformandolo. In quel buio c’è una luce che non è ancora stata tradotta dai nostri occhi, che è in viaggio verso di noi.
Tutte le esperienze più significative della nostra vita appartengono al campo del non immediatamente comprensibile, contengono una componente oscura che rilascia significato e luce nel tempo. Non dovrebbe quindi sorprendere affatto che la poesia, che è la lingua che più si confronta con ciò che sembra avere le caratteristiche di una durata, di qualcosa che va conservato e protetto nella memoria, custodisca in sé una parte di quella oscurità. Anche perché è proprio della poesia, come accennavo in precedenza, questo movimento di ritorno verso l’origine, questa natura arcaica che è, come scrive Agamben, la sola via di accesso al presente in grado di farci contemporanei a quel processo di trasformazione che appartiene al divenire storico. C’è poi un’altra oscurità in poesia, e forse è a questa che si riferisce Paolo Zublena, quella che proviene da un inganno, più o meno consapevole, nei confronti del lettore. In questi casi l’oscurità tenta di coprire una mancanza: di lavoro umile e paziente da parte del poeta o, peggio, un’assenza più radicale (di esperienza, di autenticità del sentire) da cui può originarsi soltanto una forma di comunicazione, di “espressività poetica”.
8. Giovanna Rosadini, nell’introduzione a Nuovi poeti italiani 6, afferma che la tua poesia è fatta di “immagini private e impenetrabili” e di un linguaggio “essenziale ed ellittico”. Diresti che una certa violazione dell’identificabilità sia propria della tua poesia e della sua lingua?
In quel passo dell’introduzione Giovanna Rosadini si riferisce al mio libro d’esordio, Mala kruna (Manni, 2007), di cui alla fine, per alcune vicende, non è stato inserito alcun testo nell’antologia (raccoglie infatti soltanto le poesie uscite l’anno seguente in Pasta madre). A ogni modo Mala kruna è un libro importante per me. Scrivendo quei testi, nei primi anni dell’università, ho sentito la gioia liberante di essere raggiunta da una lingua. Mi trovavo in un periodo molto difficile della mia esistenza che si presentava come una fine: un enorme masso era franato sul mio cammino. A un tratto, senza sapere come, mi sono ritrovata con il masso alle spalle e con un’altra possibilità di vita che mi veniva donata attraverso la lingua. Le scatole piene di quaderni e taccuini della mia adolescenza affondavano nel buio degli armadi: potevano essere dimenticate. Non contenevano la mia vita, soltanto le tracce ostinate per raggiungerla, per salvarla. Nei testi che stavano nascendo ora ritrovavo invece il suo splendore oscuro e misterioso. Finalmente, senza sapere come, il cordone di una madre antica mi ricongiungeva a sé: la mia lingua madre mi riportava alla luce, mi rimetteva al mondo, nel movimento incessante, oltre il dolore che mi aveva schiacciato, che mi ero portata addosso come una lapide.
Foto di Alessandra Calò