copertina Emanuela Ceddia

Emanuela Ceddia, dieci inediti

 

  
  
 Ci occludevano le gole
 silenzi gelati,
 ma le labbra tenevano la crepa.
  
 Sciogliti a sillabare.
 Neve.
  
  
  
  
 Adesso, è accadere come campo:
 specchiare la chimica gelata
 del sole nell’erba -
 la scheggia
 dove la mente simula cristalli.
  
 Di nuovo come quando ti divento.
 Tu mi diventi.
  
  
  
  
 Ci sono. Gabbiani fuori luogo tra le zolle
 lontani da ogni volo. Come pietre.
 Ci sono voci ferme. Si stringono
 al silenzio, senza
 comporsi in braccia, come funi.
 Ci sono. Le morti minori nei canali.
 Un vecchio corpo di lepre già passata.
 Ali riposte in schegge
 minerali. Si spezza il tempo
 e si ripete. Piove.
  
  
  
  
 Lo specchio degli occhi si apre 
 dove i rami s’innestano ai nervi
  
 tra canne e vento accadono voci
 solo nel solco dell’udito. 
  
 Da quali crepe il primo sgocciolio
 riporta il sangue all’acqua dell’inverno…
  
  
 Qui scricchiola la schiena come un’ala –
 trema lo scheletro di noci
 che mi sconfina dentro.
  
  
  

  
 Volti di terra 
 nei volti delle zolle. Scegli
 teste levate singolari
 su spalle polverose, tra serie
 di gomiti o ginocchi. Utili membra
 a rilevare il corpo persistente.
 Sostanza perpetua, senza resa.
  
 Profili ossuti
 muovono leve di riconoscimento.
 Come il legno
 nero dei cormorani all’orizzonte.
  
  
  
  
 Ora attraversi la membrana
 che avvolge la parola
   
 vieni nella cellula vitale, si buca 
 il perimetro del senso.
  
 Torna a vibrare il timpano.
 Basta un grido d’uccello.
  
  
  
  
 Tutto quanto dal tuo corpo migra,
 dal tuo coro si alza, voce
 verso ritorni originari
  
 ti traduce in polveri sfuggite
 alla sagoma dell’io, nella virata
 della materia madre.
  
 Non abbiamo
 prove dell’esistenza della fine.
  
  
  
  
 Brucia il vuoto nei bracieri
 di fiamme altissime solari,
 come in coppe armate di metalli
 vicini alla fusione.
  
 Ci sfiora un destino elementare.
 Ci tocca piano,
 come una distrazione.
  
  
  
  
 In quella bulimia rossa dell’alba
 che inghiotte il cielo 
 si apre
 un vuoto che chiameresti giorno,
 se non ci fosse un nesso senza scampo,
 un cielo uguale
 che ti continua dentro
 e non si ferma, braccandoti
 alle spalle, parandosi davanti
 al tuo risveglio.
  
  
  
  
 Ecco la morte: passare dalla vita
 all’esistenza.
 La quota dell’io diminuisce. Si apre
 alla demenza. Alla semenza.



Foto di Samuele Bellini 
   

Condividi: