Cartoline Nella sua bella blusa blu il mare scrive cartoline. Le invia a pochi amici. Su ognuna di essa un granello di sale, un pesce fa da francobollo. Non le firma mai. Domenica pomeriggio d’una pianta d’appartamento Con le matite messe in bell’ordine ho scarabocchiato un campo di non so che cosa, un ricamo d’alberi su di un merletto di terra. In bicicletta sul lungo Po si è recato il colombo vicino di casa, a perdifiato è ritornato con una nuvola sul manubrio per dare acqua al mio capolavoro. La polvere ha invaso la stanza: senza uscire è trascorsa la giornata, dalle foglie alle radici è fiorita la carta da parati. A scuola di poesia Scrivere una poesia è molto semplice si prende un bel foglio si va a lavoro si fa la pausa pranzo si torna a casa lo si ripiega alla sera bianco bianco. (Quello che dovevo scrivere se l’è preso una scolaresca in vacanza lontana da casa ognora in partenza). I Ho amato un corpo morto: mio padre. Verranno gli autunni sulle onde radio. Coglieranno pretesti che non comprendiamo quando la piena dei sobborghi sfugge al patio dei controlli. Giungono senza un lamento, senza una colpa. Verso altre stazioni per togliere anni agli istanti. Oggi fa freddo. Le previsioni dicono che sarà difficile catturare le frequenze. III In primavera crudeli giardini si coprivano di mille litanie, mia nonna con veletta sul cappello le raccoglieva, le depositavo ai piedi di Gesù. I giardini erano la stanza in più della nostra casa vuota d’estuari: petali di Lari malvagi Penati gli scuri armadi origliavano. Upupa di silenzio. L’impossibile ala di neve di una ringhiera. Ti desti in un grido. Onde radio scendono dal cielo, irrequieto candore sulle fronde degli alberi. S’addensano nastri di nubi. Silenzio aspro, tenda immobile qui vicino o altrove le frequenze della radio restano ancora flebili. L’aia appare sul vuoto, dipinge il pane ed il vino. La mano cerca la manopola per sintonizzarsi. Palpito arido osceno intervallo a lungo meditato, eppure il cielo brilla in questo pomeriggio di febbraio. Candida abbagliante clausura a monte o a valle la cecità non dà tregua. Terra. Terra. Perfezione di una lente. Oscilla la barca. Si sottrae alla forma, al colore costringe il sigillo. Le onde radio non restano ferme: perché tanto clamore? Quando ero in Germania un giovane iddio passava davanti alla gendarmeria. Caldo fiore sfigurato flutto la neve oggi non ha più il suo guado. Sul ferro s’ascolta l’upupa di silenzio. L’elezione di un papa Seppi confessare il mio inizio: altare, ore, liturgie nella bocca del pane mio. Battito, urto, impeto, serrato dal fuoco ascolto l’altezza, altra vita non posseggo. In questa casa un tiglio sogna, un viale conduce verso periferie. S’ode un treno. Giglio colto da Caino. L’ora nona esita, sacrificio al servizio della sera che si fa perché. I rami, i rami sono ancora pieni di giorni compiuti, di foglie preziose. Salario del peccato che si accende nel petto, non viste s’aprono le grate del bosco. Chi vi abita ha un nome impronunciabile. Incudine della gioia, la corona di spine tesse l’ansia del conforto. C’è l’ora nona, sconosciuta, da percorrere. Dopocena Strano a dirsi ma la cena è riuscita. Abbiamo spezzato il pane, bevuto il vino, intinto nell’olio le focacce. Giuda è stato tranquillo, Pietro brioso. Quando se ne sono andati Giovanni, il più giovane dei miei discepoli, mi ha ringraziato per la lieta serata. Dopo aver chiuso la porta ho sgombrato la tavola, la lavastoviglie non ha fatto rumore. Non avevo voglia di mondare i piatti. Disteso sul sofà mi sono visto la registrazione dell’ultima puntata di Downton Abbey. Tranquille appassite verità. Di soldati che vengono ad arrestarmi non ce ne sono più, di morti da resuscitare in giacca e cravatta neppure. Icone delle onde radio di ieri raccontano della mia entrata a Bruxelles. Presso di me non c’è preferenza di cani, di locuste, di sconosciuti. Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue, questo il momento di vegliare. Così ammetteva un mio seguace che non voleva camminare su nuvole di chiese pallide e inquiete. Il sepolcro di Lazzaro Da questa pietra non so staccarmi. Ottobre è un fiore, luglio un bosco dimenticato, gennaio la pena di un binario locomotore senza conducente. In questa terra assolata l’erba è più forte delle sue creature. Fui seppellito senza cieli, un temporale di cenere e luce entrò nel mio sonno. Risorsi. Vermiglie teologie videro i miei calzari percorrere pietraie. Per rancore, nel fianco, mi fu piantato un coltello. Le palpebre ebbero un fremito. Risuscitai. La città era stata distrutta, al suo posto non il candelabro, non la croce, non l’aquila ma un nuovo Dio, il tuo Said, che non è il mio. Ti amai senza conoscere il tuo volto. L’imperatore di Bisanzio s’adornava di greco, con pupille raggianti portasti il suo anello nel medio. Trofeo di un incendio, dolore per alberi di croci cedui. Un tempo l’avrei indossato, ma la tua legge infierì sul mio corpo. Giacqui nell’estremo orlo del gregge. Un nuovo temporale di abbandono e chiarore s’aprì in un rovescio primaverile sul conclave delle eresie. Tra baracche e cani rabbiosi i notturni e i nebbiosi seppelliscono ora i morti che mai perdono il loro treno. Le mie resurrezioni non hanno fine, posseggono la rotta di un razzo, eco fanciullo di altre vendette.
Foto di Samuele Bellini