copertina Beatrice Restelli

Beatrice Restelli, “Il resto delle cose”

Alcuni testi tratti dalla silloge Il resto delle cose di Beatrice Restelli (Milano, 2000), vincitrice, insieme a Giuliana Pala e Arjeta Vucaj del premio “Esordi – Pordenonelegge” 2022. L’intera silloge si può leggere nell’ebook pubblicato dalla fondazione pordenonelegge.it, a cura dei giurati del premio (insieme a me, Roberto Cescon, Tommaso Di Dio, Massimo Gezzi, Azzurra D’Agostino). 

da addormentarsi piano, risvegliarsi in superficie

Un taglio mi basta per dire che io.
Io nei boschi a inciampare, nelle strade il disorientamento, io il volto serio sulla 
tavola in penombra.
Non ho scelto, per me, le pareti buie, né i pomeriggi senza voce. Ma non si può 
vedere, solo ricordare i nostri nomi per questo istante in relazione.
Rimane solo consolarci con tutte le mani, con attenta distrazione dalla sera, 
attendere la tenerezza del riposo come un panno materno sulla fronte.
Con parole grandi riconoscersi in un abbraccio, stare in due sui marciapiedi 
nella quiete condivisa.
Contro le ombre sulla faccia chiedo 
scusa puoi fare più piano. È un'ora precisa
che hai vissuto a mezza voce 
nel calare una mano sott'acqua; nel vapore del bagno
non sapevi dare un cenno di vita.
Per il troppo sudare diventavi 
la vasca sospesa e l'aria
pesante del corpo. Mi guardavi
come se fossi già qui: perché sei sempre tu
porzione mediale, scatto disattento.

                                                                      Eadem sunt omnia semper 

I

Hanno detto questa pioggia,
anche loro i marciapiedi e le scarpe.
Le panchine fredde, il vetro accanto.
Un parco di novembre e i bambini a casa.
Li ho visti al sole giocare senza guanti.
Anche io giocavo, ma era un altro posto, e non con loro.
Una signora non sembra una madre
perché non somiglia alla mia.
Capita il pianto, di nessuno: è solo novembre che ci ricorda.
Le dita aspettano di intorpidire 
per sfiorarmi la guancia. L'ultimo gesto concesso, l'inverno.
Mi chiamo ancora come ieri, ma non sembrano saperlo.



II

Si sono vestiti di nero e hanno fasciato le nocche
ma ora vogliono distrarsi e non dicono più
le povere cose.
Insegnano a ringraziare per il giorno e per il pane.
Le piccole teste piangono al freddo
inatteso dell'acqua. Poi imparano a chiedere, scusare.
Pieni di case, bambini, vacanze. E le auto, i giochi, ridere. 
Spigoli smussati, tappeti sul marmo: non moriranno mai.
Donne che proteggono il futuro tra i fianchi,
nuovi giorni. Vecchie ninnananne per domani. 
Nascono ancora per non continuare a morire.




Per il bacio sul guanciale del letto 
perché lo trovasse la sera
appena prima di dormire.
I sì detti senza condizioni 
salveranno lo sguardo dalla tristezza
delle stanze desolate. 
Otterremo il perdono aprendo la finestra 
senza paura di perdere il respiro.
Non posso, mi dispiace, non riesco
a dire cosa sono.
Somigliarsi è: riconoscersi in capelli annodati tra le dita, intrecciarsi a dimenticare i nostri arti. È io che dico a te; sei tu che dici aspetta, andiamo, scusa. È imitare la postura, mimare la cadenza.
L'amore che facciamo è l'amore che possiamo, non oltre un limite: ci si ama dopo lo scambio di sudore; solo dopo un pegno di vestiti, per imparare a abitare un corpo come le coperte dei bambini.
Conoscersi è un gesto che richiede di farsi superficie.




Foto di Francesco Ventura

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